Quando, dopo un periodo di discussioni e di confronto sugli obiettivi e sulle difficoltà tecniche, riuscimmo infine a mettere sulla rete filiarmonici (se la memoria non mi inganna era il 2001), già si vedeva chiaramente che nel futuro prossimo, che poi sarebbe oggi, chi avesse voluto rendere visibile le proprie opinioni, progetti o altro, avrebbe fatto bene ad attrezzarsi per utilizzare le possibilità offerte dal “nuovo” medium. Ci fu una delle persone che al tempo giravano intorno al progetto che propose un nuovo sito, dove si parlasse di tutte le realtà comunitarie, autogestite, di sperimentazione della libertà possibile, di cui venissimo a conoscenza, direttamente o indirettamente – non solo in Italia ma ovunque nel mondo. A me (che pensai subito a Urupia, l’unica realtà che conoscevo bene) sembrò un’idea orrenda, un triste catalogo dei difficili tentativi di concretizzazione di sogni altrui, da incastrare in un mezzo gelido e inopportuno. A nessuno piacque la proposta e il sito non si fece, ma era chiaro che la rete non poteva ignorare a lungo le comuni, le quali avrebbero dovuto prima o poi rassegnarsi all’inevitabile: o parlare in prima persona o lasciare che fossero altri, in un modo o nell’altro, a occuparsene.
Urupia non ha, a tutt’oggi, un proprio sito, e quindi se usate il computer per avere informazioni del mondo, vi affiderete a varia gente che se ne è interessata. Ne avrete dunque una composita descrizione con una aderenza alla realtà molto relativa, molte notizie precise, alcune meno, altre fantasiose. Quelle poco precise sono dovute al fatto che, essendo una situazione molto viva, i cambiamenti sono costanti, quindi ciò che era vero dieci anni fa oggi può non esserlo più. Poi c’è chi lavora di immaginazione per cui pare che da qualche parte ci sia scritto che Urupia sia una comune vegetariana mentre al momento solo una comunarda non mangia animali.
Ma io voglio evidenziare un più curioso fenomeno che mi è balzato agli occhi non sfogliando pagine web ma quelle di carta della rivista Libertaria (2004, n. 4), e che poi la rete mi ha confermato. Impressiona come la scelta delle immagini corrisponda solo in piccola parte a ciò che è presente sul luogo, e divenga invece uno strumento di modellazione della realtà ad opera del visitatore che, selezionando immagini, deforma a proprio piacimento – ma forse dovrei dire: a piacimento del proprio inconscio – ciò che ha davanti agli occhi, per assecondare la propria visione del mondo. Della serie: io la comune non la faccio per i motivi x, y e z, quella che fate voi è molto bella ma io ve la faccio ancora più bella, fotografandola come, se fossi in voi, la farei io (che però mi guardo bene dal farla).
L’ho fatta complicata, vero? Allora semplifico.
Perché negli articoli su Urupia sulle riviste non ci sono mai foto dei trattori? Perché non c’è nessun sito di un fotografo tedesco che immortala la pigiadiraspatrice? Se osservate le fotografie che illustrano l’articolo di Libertaria sembrerebbe che a Urupia si viva annaffiando e zappando a mano la terra, cosa che non è, o è abbastanza poco.
Il risultato è buffo, ma la motivazione è chiara: la tavolata quotidiana è bella, la vite è magnifica, i bambini sorridenti sono stupendi e gli ulivi secolari sono meravigliosi più d’ogni altra cosa, e tutti li vogliono far vedere e diffondere l’idea che l’autogestione abbia la bellezza di un giovane sguardo, la forza di un tronco centenario, la gioia di una mangiata tra compagni.
Viceversa, i trattori sono brutti (e, a peggiorare la loro bruttezza, sono sempre maschi a guidarli), la pigiadiraspatrice fa casino e la scopatrice meccanica può risultare libidinosa solo per un depravato dotato di grande fantasia. Sono un po’ come le riprese dei comizi del papa o dei politici: quando in piazza c’è poca gente il cameraman evita assolutamente inquadrature panoramiche e ne fa solo abbastanza ravvicinate, in modo da dare l’illusione che ci fosse una moltitudine e invece erano tre fessi. In questo caso, ovviamente non c’è volontà di falsificazione, ma il risultato è simile, perché si tende a dare l’illusione che si possa vivere in campagna liberi e felici senza usare macchine che facciano i lavori più pesanti al posto delle persone – in tempi incomparabilmente più brevi.
In campagna la tecnologia puzza, la meccanica non è poetica, il rumore degli ingranaggi e il fetore del gasolio inquinano proditoriamente l’immaginario bucolico di chi vive in città (che però si guarda bene dall’arrivare a piedi o a dorso d’asino).
Suvvia, non potreste essere un po’ più arcaici? No? E allora un pizzico di censura, solo un pochettino.
Il trattore, vittima di un rigurgito di romanticismo politico-campestre, diviene invisibile, ma, come mulo d’altri tempi, non protesta e continua ogni giorno a mettersi in moto.
E senza di lui, olio da Urupia ne avremmo ben poco, e sarebbe, credeteci, una gran perdita.
Ma io voglio evidenziare un più curioso fenomeno che mi è balzato agli occhi non sfogliando pagine web ma quelle di carta della rivista Libertaria (2004, n. 4), e che poi la rete mi ha confermato. Impressiona come la scelta delle immagini corrisponda solo in piccola parte a ciò che è presente sul luogo, e divenga invece uno strumento di modellazione della realtà ad opera del visitatore che, selezionando immagini, deforma a proprio piacimento – ma forse dovrei dire: a piacimento del proprio inconscio – ciò che ha davanti agli occhi, per assecondare la propria visione del mondo. Della serie: io la comune non la faccio per i motivi x, y e z, quella che fate voi è molto bella ma io ve la faccio ancora più bella, fotografandola come, se fossi in voi, la farei io (che però mi guardo bene dal farla).
L’ho fatta complicata, vero? Allora semplifico.
Perché negli articoli su Urupia sulle riviste non ci sono mai foto dei trattori? Perché non c’è nessun sito di un fotografo tedesco che immortala la pigiadiraspatrice? Se osservate le fotografie che illustrano l’articolo di Libertaria sembrerebbe che a Urupia si viva annaffiando e zappando a mano la terra, cosa che non è, o è abbastanza poco.
Il risultato è buffo, ma la motivazione è chiara: la tavolata quotidiana è bella, la vite è magnifica, i bambini sorridenti sono stupendi e gli ulivi secolari sono meravigliosi più d’ogni altra cosa, e tutti li vogliono far vedere e diffondere l’idea che l’autogestione abbia la bellezza di un giovane sguardo, la forza di un tronco centenario, la gioia di una mangiata tra compagni.
Viceversa, i trattori sono brutti (e, a peggiorare la loro bruttezza, sono sempre maschi a guidarli), la pigiadiraspatrice fa casino e la scopatrice meccanica può risultare libidinosa solo per un depravato dotato di grande fantasia. Sono un po’ come le riprese dei comizi del papa o dei politici: quando in piazza c’è poca gente il cameraman evita assolutamente inquadrature panoramiche e ne fa solo abbastanza ravvicinate, in modo da dare l’illusione che ci fosse una moltitudine e invece erano tre fessi. In questo caso, ovviamente non c’è volontà di falsificazione, ma il risultato è simile, perché si tende a dare l’illusione che si possa vivere in campagna liberi e felici senza usare macchine che facciano i lavori più pesanti al posto delle persone – in tempi incomparabilmente più brevi.
In campagna la tecnologia puzza, la meccanica non è poetica, il rumore degli ingranaggi e il fetore del gasolio inquinano proditoriamente l’immaginario bucolico di chi vive in città (che però si guarda bene dall’arrivare a piedi o a dorso d’asino).
Suvvia, non potreste essere un po’ più arcaici? No? E allora un pizzico di censura, solo un pochettino.
Il trattore, vittima di un rigurgito di romanticismo politico-campestre, diviene invisibile, ma, come mulo d’altri tempi, non protesta e continua ogni giorno a mettersi in moto.
E senza di lui, olio da Urupia ne avremmo ben poco, e sarebbe, credeteci, una gran perdita.
Giuseppe Aiello, Settembre 2007