“Contro lo sviluppo”: un passo avanti, tre salti indietro.

Stabilito e confermato che nessunissimo partito ha la minima intenzione di inserire nel proprio programma una qualche forma di progetto di interruzione dello sviluppo illimitato, e che neanche organizzazioni e associazioni varie sembrano disposte ad avventurarsi su questo irto ed impopolare sentiero, i critici e gli insofferenti si aggirano in ordine sparso, chi beandosi di un nobile isolamento ed auspicando una catastrofe abbastanza rapida da poter permettere di dire, alfine, “visto, l’avevo detto, io…” – chi invece cercando simpatie e teorizzando movimenti e affinità. Vanno senz’altro inseriti tra questi ultimi gli autori, Marino Badiale e Massimo Bontempelli, di un breve scritto dal titolo invitante: Contro lo sviluppo – Punti critici per una nuova forza politica, che potete trovare qui:

http://www.zmag.org/italy/badiale_bontempelli-controsviluppo.htm

L’articolo, scritto in genere con apprezzabile chiarezza, parte dalla constatazione che le forze politiche di ogni orientamento sostengono attivamente l’idea di crescita economica senza fine e contiene degli esempi stringati ed efficaci che evidenziano come equiparare il prodotto interno lordo di un paese al benessere dei suoi cittadini sia in buona sostanza erroneo, cosa che trovo del tutto condivisibile.
Ho trovato sorprendente che con presupposti di questo tipo gli autori siano giunti a delle conclusioni così moderate, ma pensandoci bene ciò non solo è normale, ma va tenuto presente che una grande eterogeneità di prospettive sarà quello che certamente ci troveremo di fronte se si diffonderà l’avversione allo sviluppo. Vale forse la pena quindi di evidenziare in modo schematico i punti che ho trovato deboli nel documento in questione.

 

Questione nazionale

“Una nuova forza politica che voglia combattere contro la decadenza del nostro paese […] – “Nella situazione attuale […] non c’è nessuna possibilità concreta di pensare ad un governo dell’Italia che vada nella direzione della decrescita.”
Ovvero, come ripiegare ancor prima di avere avanzato. Il peggior modo di porsi un problema divenuto evidentemente globale è quello di farne una questione nazionale. Che significa da una parte ragionare su scala troppo grande per tenere conto delle dinamiche quotidiane della vita delle persone, dall’altra su scala troppo piccola, in modo da non riuscire ad osservare l’evidente interdipendenza tra società di aree geograficamente molto lontane. La sconfitta storica della classe operaia ha fatto pensare molti ex-rivoluzionari che l’internazionalismo andasse lasciato completamente nelle mani della globalizzazione ad opera dei poteri politico-economico-militari, e che le istanze di cambiamento dovessero essere nuovamente riposte in piccole e grandi rivendicazioni nazionali. Chi ci è riuscito e chi no. I tedeschi dell’est sono riusciti a riunirsi ai compatrioti occidentali, gli albanesi del Kosovo vorrebbero imitarli ma la cosa non è così semplice, i polacchi si sono sottratti al giogo russo per prostrarsi al potere americano, i baschi si fottano, i curdi (una volta i più gettonati presso i marxisti-leninisti ed oggi molto amati dai filoamericani) a volte sì e a volte no, i palestinesi si sparano tra loro per ingannare l’attesa di uno stato indipendente, e così via in una lista pressoché interminabile. Purtroppo va detto che anche le parole dei rappresentanti del movimento zapatista messicano spesso possono essere lette nel senso di una rivendicazione nazionale. Con un mondo che si è ristretto assai, invece di rinnovare con maggior forza il buon vecchio progetto dell’eliminazione di ogni frontiera ci si arrovella sulle tattiche migliori per crearne sempre di nuove. Purtroppo molti cosiddetti noglobal sono effettivamente convinti che il capitale stia facendo a meno, e superando, le istituzioni statali, il che è ovviamente una sciocchezza: sono poteri che collaborano e in larga parte coincidono, e se lo stato è nato e si è sviluppato, di fatto, senza capitalismo, il capitalismo senza stato non ha alcuna possibilità di esistenza.
Dunque, altro che “combattere contro la decadenza del nostro paese”, è molto di più quello che ci serve.

2 – Il benessere, ossia un punto di vista.

“Per un lungo periodo storico, fino a tutti gli anni Sessanta del secolo scorso, l’allargamento della scala di produzione, pur con tanti risvolti negativi, è stato effettivamente associato, in un quadro storico complessivo, alla diffusione del benessere economico, all’ampliamento della libertà individuale, all’avanzamento dei costumi e delle conoscenze.”
Al punto precedente, cioè una concezione ristretta all’ambito nazionale, si associa un’altra forma di miopia che valuta positivamente, come ben sintetizzato nelle righe su citate, l’”allargamento della scala di produzione”, ovvero l’industrializzazione. Questa avrebbe infatti contribuito al benessere della collettività fino agli interi anni sessanta, mentre nel corso degli anni settanta, ci spiegano degli “studiosi” americani (potremmo mai capire qualcosa senza un economista americano, meglio se legato al partito democratico come la buonanima di Miringoff, che ce la spieghi…) in base ai loro grafici disegnati grazie a degli “indicatori di salute sociale” appositamente elaborati, avrebbe perduto tali virtù. Ma che vuol dire benessere? E benessere di chi? Gli aborigeni australiani ai quali i figli venivano strappati per essere mandati presso famiglie bianche secondo gli autori avrebbero usufruito dei vantaggi dello sviluppo? E i nativi americani scacciati dalle riserve loro assegnate dai dominatori bianchi e poi scacciati ancora e ancora, in terre via via più povere e inospitali, hanno visto “ampliata la loro libertà individuale”? E gli abitanti dei tropici costretti a utilizzare inutili e dannosi abiti per coprire le loro nudità non tollerate dagli invasori europei, (in testa sempre i missionari, faro spirituale dell’occidente), avranno percepito un “avanzamento dei costumi”?
È evidente che concentrare lo sguardo sul mondo che era in via di industrializzazione è poco sensato, perché quel mondo si industrializzava a spese di altri mondi: il nostro pianeta era già internazionalizzato, se non globalizzato. Non solo, ma anche all’interno degli stessi paesi industrializzati c’è moltissimo da discutere se quelli che gli autori chiamano “risvolti negativi” fossero effettivamente dei risvolti oppure non sopravanzassero largamente gli ipotetici “avanzamenti”.
Solo un cambiamento sembra costante ed evidente, ed è quello di una maggiore densità demografica. Come il passaggio da una società di cacciatori-raccoglitori ad una di agricoltori, così la modifica della produzione attraverso l’industrializzazione ha finora permesso continui aumenti di densità della popolazione. Ma, dovremmo chiederci, ciò è davvero un “bene”?

3 – “Ipse dixit”? Ancora?

Domanda cruciale: “Perché l’ideologia dello sviluppo è […] così cogente che non c’è forza politica […] che la metta in questione?” Meno importante dei punti precedenti ma sintomatico, è lo scivolone che per rispondere a questo interrogativo trasporta improvvisamente gli estensori dell’articolo da un linguaggio concreto e preciso alla nebbia degli intellettualismi marxiani che ci si aspetterebbe dileguati una volta per tutte. Evidentemente gli autori non ci stanno ad essere completamente orfani di pensatori autorevoli e autoritarî e mentre stanno argomentando con trasparenza, a un certo punto – presi dal senso di colpa del pensatore scoperto senza la mutanda di un filosofo tedesco che ne copra le nudità – calano in terra il loro asso di piombo: “Per capirlo occorre servirci degli strumenti interpretativi dell’”Ideologia tedesca” di Marx".  E via con “il processo autoreferenziale di riproduzione allargata del plusvalore” a ristabilire le distanze tra intellettuali e plebe. Lo so, non è molto grave, trattasi di tic congenito, ma mi sta lo stesso un poco sulle palle, e diffido sempre di chi pensa, parla e scrive così. Un linguaggio specialistico in determinati contesti è inevitabile (in campo tecnico-scientifico ad esempio, anche se pure lì spesso se ne abusa), ma quando si parla di cambiamento sociale, chi usa una terminologia esoterica si sta in genere prenotando un posticino sul carro del prossimo vincitore. Gli estensori dello scritto si dimostrano ancora confusi in merito e lo dimostrano ancor più quando prendono in considerazione i movimenti di opposizione (no tav, no ponte etc.) che in molti riconosciamo come l’unica prospettiva in cui al momento ci si può riconoscere (sottolineo: senza un’identificazione completa), che potrebbero essere unificati, come viene opportunamente evidenziato, solo in un’ottica di decrescita. Definita un “prospettiva di estrema radicalità”, il che potrà essere vero a patto di evitare con cura il suggerimento, o tristissimo ripiego, che chiude il documento, cioè: “Una nuova forza politica di opposizione dovrebbe dare una dimensione politica nazionale a tali lotte, inquadrandole nell’obiettivo di un ritorno al rispetto della Costituzione repubblicana […]”
Dunque tutta la radicalità della decrescita si esprimerebbe al meglio ritornando nientemeno che alla “costituzione repubblicana”, quella che ha così ben protetto e riparato ogni politica di distruzione ambientale e repressione dei movimenti? Certo che, se questi sono gli oppositori, i tifosi del deserto industriale non hanno molto da temere da questa futura forza politica, anzi possono dormire sonni del tutto tranquilli.

Giuseppe Aiello, luglio 2007

 

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