Un gesto di distruzione ha sempre un suo fascino perché bene o male rompe con le convenzioni. E anche se lo sbagli non ti senti mai piccolo. Non ho mai trovato nessuno che si vergogni del suo operare.
Giorgio Gaber, La cacca dei contadini da: Libertà obbligatoria, 1976.
Ma operare non è solo distruggere, anche costruire è “operare”, ed è proprio vero, è difficile che ci si penta del proprio operare. Anche in quei rari casi in cui un pentimento affiora non ci si vergogna della propria opera.
Ma fare, costruire, produrre, come?
Non intendo certo produrre autoveicoli alla Fiat, sigarette alla Philip Morris o zucchero all’Eridania. Beh, se fossi alla fame magari sì, ma in attesa di quell’infausto giorno ambisco a qualcos’altro, qualcosa di meglio. Per partire bene troviamoci qualche buon modello di riferimento. A seconda dei gusti potete essere ambiziosi e mirare altissimo (della serie: “il mio prossimo fidanzato deve essere bello come Mastroianni da giovane, intelligente come Feyerabend e simpatico come Gegè Di Giacomo”), con un po’ di buon senso magari che vi faccia capire che a volte tocca limare i propri desideri.
Oppure guardare più vicino, tipo la figlia del professore di educazione civica o la fidanzata di vostro cugino, scelte che pure loro possono presentare, accanto agli indubbi vantaggi, dei seri inconvenienti. Io ho scelto una via di mezzo, se devo pensare a come fare le cose penso a Nautilus e a Urupìa.
Il primo libro di Nautilus che ho avuto tra le mani è anche il primo che hanno stampato nel 1981 (però era dieci anni dopo), un testo anonimo non sulla ma nella rivoluzione spagnola, Protesta davanti ai libertari del presente e del futuro sulle capitolazioni del 1937. La lettura di quelle poche pagine mi convinse che a tanti avrebbe fatto bene leggerle e richiedendone delle copie ho scoperto le altre cose che realizzavano. Al di là degli argomenti trattati (non tutti mi appassionano) le produzioni di Nautilus dimostrano sempre la passione del fare, sono curati e ben fatti da qualcuno che si diverte a creare, oggetti particolari, insomma, sono “belli” e se stampo carta non è che provo a fare la medesima cosa ma in qualche modo tengo presente quel metodo. Per Urupìa è più o meno lo stesso, ma con qualche differenza sostanziale. La più importante non è che in questo caso si parla soprattutto di vino, olio e pane, che hanno caratteristiche leggermente diverse da un prodotto editoriale, ma il fatto che a Urupìa con la vendita delle loro produzioni ci vivono e a Nautilus no, anzi si dichiara esplicitamente che non è il luogo per: “nessuna remunerazione per qualunque tipo di attività manuale o intellettuale che sia“. Dunque a Nautilus nessuno si paga le bollette con le autoproduzioni e a Urupìa con le autoproduzioni ci si paga parecchie cose. Si escludono i due approcci? Secondo me no, dipende dalle contingenze e dai casi, ma per me non è una questione centrale. Centrale è che il vino, il pane e l’olio di Urupìa sono diventati, nel tempo, buonissimi, e non per caso, ma per impegno, concentrazione, applicazione, desiderio. Bollette o non bollette da pagare penso che dobbiamo contribuire a un mondo dove le cose fatte male siano di meno e non di più (lo so che sono in controtendenza, e con ciò?).
Qualcuno di noi diventerà ricco con le autoproduzioni? A questo scopo dovremmo darci alle autoproduzioni del genere di Lucio Urtubia, mica allo zucchero assassino, ma questo richiederebbe un impegno smisurato, troppa fatica davvero.
Giuseppe Aiello, 12 gennaio 2011
No, perché prenderti per il culo, è un audace e laboriosissimo muratore, falsificatore e rivoluzionario anarchico sul quale gira un simpatico documentario, una vita emozionante e incredibilmente poca galera, per i soldi che ha spazzolato in giro…
Lo so che ora ci sarà chi mi piglia per il culo, ma Lucio Urtubia chi é?