Ho scritto questo articolo circa dieci anni fa (per la precisione, alla fine del 1996) per chiarire alcuni luoghi comuni sulla musica napoletana contemporanea e perché tutti quelli che ne parlavano dimostravano di non conoscerla, di non averla mai ascoltata con attenzione e di conseguanza dicevano un sacco di sciocchezze. Anche se un po' datato – in dieci anni cambiano tante cose (Mario Merola era vivo, Gigi D'Alessio era totalmente ignoto al di fuori del suo contesto e così via) – e con qualche piccolo errore, l'articolo resta secondo me ancora valido nell'affrontare da un punto di vista materiale e funzionale un'espressione culturale di massa. Divenne il capitolo di un libro che ebbe vendite scarse, però fu letto da un giornalista de "Il Mattino", Federico Vacalebre, che riprese il termine che avevo coniato, cioè "neomelodica", nei suoi articoli e anche in un libro (citandolo correttamente). Con mia grandissima sorpresa una parola messa lì per colmare un vuoto terminologico, ma senza grandi pretese, divenne in pochissimo tempo un termine diffusissimo e radicato nel linguaggio. Ancora oggi quando mi capita di raccontare a qualcuno che sono io il "colpevole" dell'esistenza del vocabolo ho l'impressione di non essere creduto. Dimenticavo, mi avevano detto che mi pagavano (500mila lire), e non l'hanno mai fatto, e ciò fu forse un bene: ho capito che andare a questuare per farmi dare i soldi che mi spettano per un lavoro non è arte mia. Così si estinse ogni pur vaga ambizione di fare il giornalista. (G.A., giugno 2007)
LA COMPRENSIBILE ESISTENZA DI UNA MUSICA INACCETTABILE
Invito ad un piccolo esperimento domestico
La modesta dimostrazione che viene qui di seguito illustrata richiede pochi elementi: un qualsiasi apparecchio radiofonico in grado di captare le stazioni che trasmettono in modulazione di frequenza, un posto ove l'ascolto di tale apparecchio sia ordinario – casa, luogo di lavoro, se compatibile con la diffusione di musica, sedi di associazioni a carattere culturale, ricreativo o politico, e così via – e, infine, una o più cavie umane. Le cavie ideali dovrebbero appartenere a quella consistente fetta di popolazione che ha compiuto studi medio-superiori o universitari, democratica e/o progressista, di certo antirazzista. Vanno bene anche i rivoluzionari, se vi riesce di trovarne. L'importante è che le cavie dedichino una certa attenzione e una parte del loro tempo al consumo culturale, che siano gente che legge, vede, ascolta: sono presumibilmente le persone che ti circondano quotidianamente, o lettore. Dimenticavo, è necessario che ci si trovi a Napoli, o nei suoi dintorni.
Poni il sintonizzatore in corrispondenza delle emittenti che mettono in onda la musica più banale, più commerciale, più scontata che riesci a trovare (non essere sleale, Radio Maria non vale). Fai sì che vengano ascoltati Ramazzotti, Baglioni, Masini o quell'infinità di musiche dance e di gruppetti similpop e falsorock di lingua inglese, tutti uguali e tutti identicamente noiosi. Le tue cavie non avranno, generalmente, alcuna reazione, oppure chiederanno più o meno cortesemente di cambiare stazione, magari lamentandosi che la radio non manda mai niente di buono e ho capito domani porto io delle cassette. Si fermeranno su un De Gregori e dopo De Gregori pubblicità e poi ecco Concato e pace.
Prova invece, in un giorno successivo, a fermarti su una a caso di quelle decine e decine di microradio che mandano Ida Rendano, Ciro Ricci, Nino D'Angelo, Franco Ricciardi, Carmelo Zappulla: all'impatto la cavia reagirà con raccapriccio maldissimulato o con manifesto disgusto, l'espressione più moderata sarà "ma che cazzo ti senti?!", l'eventuale silenzio sarà imbarazzato o esterrefatto.
Cosa è mai successo? È successo che la tua cavia ha incontrato ciò che sente diverso da lei ma ne lambisce e a tratti ne condivide il territorio di appartenenza, ha toccato con le orecchie una musica brutta, sporca e cattiva, una musica inaccettabile, la musica dei tamarri. La tua cavia non lo sà, ma è impregnata fino al midollo di un invincibile razzismo culturale.
E tu? Mai ascoltato per intero una canzone di Luciano Caldore?
Le tante musiche di Napoli
Musica napoletana è una categoria che conserva, probabilmente, un suo significato, ma è difficile trovare criteri che permettano di stabilire cosa può esservi inserito e cosa no.
Se come discriminante si prende la lingua, allora potrebbero rientrarvi anche i 99 Posse, ma è chiaro che questo gruppo non utilizza niente di quella che è la storia dei suoni di Napoli, facendo piuttosto musica italoamericana cantata in napoletano. Un discorso tutto sommato analogo vale per le poche cose fatte in dialetto da Edoardo Bennato o da Enzo Avitabile.
Non che una distinzione operata attraverso le strutture armoniche e melodiche sia meno ambigua, anzi, per un'espressione che dimostra la sua forza proprio nella capacità di interagire con le influenze esterne, con le sonorità provenienti da altre culture, il senso della propria identità deriva anche da quella capacità indefinibile di impossessarsi e riciclare senza snaturarsi.
Può essere invece utile una grossolana schematizzazione che divida la musica napoletana in tre aree, entità più facilmente identificabili.
La prima è quella della canzone classica, che a Napoli è più o meno come la vacca sacra. Anche se non si può dire che tutti conoscano a memoria il testo di Palomma 'e notte o di Serenata napulitana, quasi tutti le amano o almeno le apprezzano, ed è abbastanza raro trovare chi manifesti nei loro confronti un'esplicita avversione, a parte gli adolescenti nel periodo del rifiuto. Ciò vale anche per canzoni come Munasterio 'e Santa Chiara che ha uno dei testi più reazionari e bigotti che si possa immaginare. Essendo sacra, la vacca non è passibile di critica.
La maggior parte dei musicisti nati o vissuti a Napoli sentono prima o dopo il bisogno di cimentarsi con il repertorio classico, includendo in questo anche canzoni relativamente recenti quali Malafemmena o Carmela che sono forse gli ultimi esempi veramente significativi di quel modo di comporre e di concepire la melodia. I risultati sono tra i più diversi: pochissimi personaggi, come Peppe Barra, ma stiamo parlando ora di un vero mostro, riescono a dare nuove interpretazioni che non solo non fanno rimpiangere quelle del passato, ma aggiungono nuovo significato e nuova bellezza ai pezzi affrontati. Altri compiono dei veri e propri scempi – per me indimenticabile un'efferata esecuzione di Lacreme napulitane ad opera di Mastelloni a Domenica in – o semplici sciatterie, come Lina Sastri che incide 'E spingule frangese omettendone la strofa centrale e rendendo incomprensibile quel testo meraviglioso.
Il più delle volte, da Consiglia Licciardi a Gigi Finizio, da Antonio Sorrentino a Nino D'Angelo, si tratta di omaggi che testimoniano semplicemente il fascino e la potenza di questa musica dalla lunga vita, dove il significato sembra essere quello della riproposizione degli standard che permette di ricollegarsi alle proprie radici, di tenere i piedi ben saldi in terra per poter partire verso direzioni nuove. Ancora, si può fare come Arbore: rivisitare assecondando quanti più luoghi comuni è possibile, quelli della tradizione e quelli del moderno a tutti i costi, trovare cantanti e strumentisti di ottimo livello, fabbricarsi un'immagine massmediale di successo e fare una barca di soldi. Il tutto, per uno che in fondo è nato a Foggia e vive a Roma, è davvero ammirevole, se non per lo spirito musicale quantomeno per la capacità imprenditoriale.
Nella seconda area si può inserire, compiendo un'evidente forzatura dal punto di vista strettamente stilistico, tutta la musica alla quale è stata attribuita l'immagine del nuovo nell'ultimo quarto di secolo, nuovo che arrivava dall'emulazione della musica giunta da altri mondi ma anche dal recupero di quelle forme tradizionali che erano state a lungo trascurate.
Fondamentalmente si tratta di un folk/pop/rock partenopeo specchio fedele di ciò che è stata ed è la musica giovanile nei paesi industrializzati, un veicolo comunicativo estremamente efficace ed aggressivo che dai paesi anglosassoni muove implacabilmente alla conquista del pianeta, fin nei suoi angoli più reconditi.
È la vecchia musica alternativa, quella che negli anni sessanta e settanta faceva sognare di cambiamento e di rivoluzione e che poi diventa l'intrattenimento degli insoddisfatti e degli spiazzati. Napoli Centrale, NCCP, Musicanova, Nacchere Rosse, Almamegretta, 'E Zezi, Daniele Sepe, Enzo Gragnaniello e le frange dai suoni più esterofili, Edoardo Bennato, Bisca, poi i rappers, e tutto un vasto assortimento di musicisti che hanno esplorato e continuano ad esplorare ogni possibile anfratto della contaminazione con le esperienze che arrivano dalle zone trainanti dell'impero della comunicazione di massa. Così in passato è stato per il jazz, per il rock'n'roll, per il soul e attualmente lo è per il dub e per l'hip hop.
Come già accennato, quella di riuscire ad interagire con le altre culture è una caratteristica che la musica napoletana possiede da sempre, ma Carosone, ad esempio, che è stato alchimista geniale e di straordinario successo, faceva canzoni che non erano né esclusivamente giovanili né tantomeno alternative. Viceversa Nuova Compagnia e Napoli Centrale non avevano stilisticamente quasi nulla in comune, ma il pubblico li percepiva in maniera analoga, le persone che compravano i loro dischi erano all'incirca le stesse, si ascoltava insieme Tammurriata nera e Campagna, come oggi i figli e le figlie di quel pubblico ascoltano insieme Sanacore e Auciello d'o mio.
Il personaggio più emblematico di questo settore è stato, senza dubbio possibile, Pino Daniele. Dalla seconda metà degli anni settanta Daniele ha cominciato un percorso dove miscelava insieme il blues, il rock e la canzone napoletana, provocando, soprattutto attraverso i testi, un processo di immedesimazione totale in quel pubblico alternativo che con gli anni ottanta diventava sempre meno politicamente rivoluzionario e sempre più privo di punti di riferimento solidi, a parte forse la cannabis e Diego Armando Maradona (che però era un simbolo di tutti i napoletani, e chi crede che questa affermazione contenga dell'ironia è chiaro che non ha vissuto a Napoli durante lo scorso decennio e difficilmente può quindi comprendere cosa abbia significato l'argentino per l'immaginario della città).
I primi sei o sette dischi di Pino Daniele sono un condensato esaustivo di tutta la rabbia, la malinconia, la felicità e la spensieratezza di una parte dei giovani di Napoli, ragazzi delle scuole medie e universitari, perlopiù senza soldi in tasca, ma anche di ceti un po' più agiati, con desideri e pensieri ben confusi, proiettati verso un mondo diverso, senza sapere bene dove mai potesse trovarsi. In molte delle canzoni di Daniele si concretizza un rinnovamento del linguaggio attuato con le parole della strada. Anche questo linguaggio deriva da una fusione – tra il napoletano, l'italiano e una specie di inglese da bancarellari di Piazza Municipio – e renderà quelle canzoni oggetto di un amore illimitato, mai fanatico, per il semplice motivo che riuscivano a darci la sensazione che era della nostra vita che si parlava, con le parole che non avremmo mai saputo trovare.
C'erano, e ci sono, tuttavia altri giovani di Napoli ai quali le canzoni di Pino Daniele non facevano un granché caldo o freddo. Canticchiavano certo Je so' pazzo, ma non scattava in loro nessun meccanismo di autoimmedesimazione, in quanto quelle canzoni li riguardavano poco, e se a volte cantavano di loro, certo non cantavano per loro. Ieri non conoscevano Eugenio Bennato, oggi non conoscono Daniele Sepe. Sono il pubblico della terza area della musica napoletana, quella che da ormai quasi venti anni ha per simbolo Nino D'Angelo.
Sufficientemente preciso sarebbe chiamarla nuova canzone melodica napoletana, per brevità e per capirsi la chiamo neomelodica, ma per chi voglia evitare neologismi sono disponibili due diverse definizioni, le quali contengono purtroppo in sé una notevole ambiguità: 'E canzone napulitane, per chi le ascolta, Le canzoni alla Nino D'Angelo, per chi non le ascolta. Più spesso chi non le ascolta la chiama musica dei tamarri o dei bagani, che è una terminologia dispregiativa e spaventosamente ottusa, e di conseguenza inutilizzabile. In molti la abbiamo spesso chiamata canzone sottoproletaria, ma ciò implica il riconoscimento della classe proletariato, che sarebbe magari pure classe rivoluzionaria. Dato che quello che era il proletariato oggi sta davanti alla televisione a guardarsi Pippo Baudo credo che tale espressione vada evitata.
Da dove arriva la nuova canzone melodica
Esiste dunque una profonda frattura nell'ambito della musica suonata a Napoli, frattura che con gli anni si è sempre più allargata, fino a raggiungere la completa incomunicabilità. Se i dangeliani non provano che sincero disinteresse per il poprock napoletano, gli amanti di questo mostrano disprezzo ed irrisione verso le canzoni neomelodiche, oltre ad una totale indisponibilità a capire da dove nascono e di che cosa vivono.
Un punto di partenza necessario – probabilmente non l'unico – per la storia mai scritta di questa musica è la vecchia canzone di malavita, amore e coltellate. Non si deve credere che gli sfregi e le pistolettate siano stati un'esclusiva della letteratura musicale minore. Brani rispettatissimi – chi oserebbe parlar male di E. A. Mario o di Libero Bovio? – come Cinematografo e Pupatella finiscono rispettivamente con la traditrice di turno sparata dentro una sala cinematografica e scannata nel bel mezzo di una serata danzante. Significativa, anche se meno frequente, la presenza di casi in cui è la tradita – o meglio: sedotta e abbandonata – a far passare a miglior vita il fedifrago, come ad esempio in Leggittima difesa.
Non necessariamente si ricorreva a metodi così drastici, anzi, la gamma dei comportamenti di fronte al tradimento, all'abbandono, alla conflittualità nelle relazioni di coppia, è sorprendentemente varia, comprendendo tutte le sfumature immaginabili: dallo sdegno falsamente distaccato (Core signore), alla disperazione etilico-tragicomica (Brinneso), all'ostentato cinismo (E bonasera ammore, Indifferenza), alla sintomatica vendetta musicale, più o meno riuscita ('N accordo in fa, Sciuldezza bella, Guapparia) e si potrebbe continuare molto a lungo. La canzone classica non è quindi assolutamente monolitica nelle soluzioni, ma i codici di comportamento sono saldi e indiscutibili: matrimonio, maternità, paternità, fedeltà, onore, sono valori indiscussi. La canzone che si occupa di tali codici può, come il blues, avere funzione di sfogo – chi non ha mai perduto un amore non può veramente sentire dentro lo stomaco Voce 'e notte – oppure fare l'apologia di un comportamento 'e conseguenza, coerente fino in fondo, cioè le coltellate di cui sopra, ma alla base c'è in tutti i casi la certezza di una visione del mondo sostanzialmente integra. Il giusto corrisponde, senza tonalità intermedie, a quei valori, e il male è incarnato da chi, non rispettandoli, mette in pericolo l'identità e i rapporti sociali in una società basata – almeno come autoraffigurazione – sulla rigidità della famiglia.
Tra gli anni cinquanta e i sessanta tutte le integrità si spezzano, e nasce quella duplicità tra le musiche della città: non esisteva il poprock e non c'era D'Angelo, ma c'erano da una parte le canzoni che rappresentavano Napoli anche all'esterno – la classica, le modernizzazioni di Carosone – e dall'altra la sceneggiata e la canzone di giacca ad uso rigorosamente interno, per napoletani e meridionali, in situ o emigrati. Murolo non cantava più le rare ma sufficientemente truci canzoni di malavita che non aveva disdegnato negli anni precedenti e si dava all'asciutta ed elegante rilettura dei classici, segno che i contatti tra quei due mondi pian piano si affievolivano. Ci saranno dei personaggi speciali, Angela Luce ad esempio, che riusciranno a cantare per tutte e due le parti, ma l'ultimo veramente in grado di essere voce di tutti i napoletani sarà Sergio Bruni, non a caso citato sia da Pino Daniele che da Nino D'Angelo come fonte d'ispirazione.
Il primo di quei due mondi vedeva come suoi luoghi naturali i teatri, la televisione, i riconoscimenti nel resto d'Italia e all'estero, dove era capace di imporsi per l'unicità delle sue strutture capaci di inglobare gli influssi anglosassoni ed ispanoamericani, risputati poi con rinnovata energia. Carosone, Peppino Di Capri, gli Showmen sono alcuni dei padri e fratelli maggiori del poprock napoletano.
Il secondo si assume invece l'onere di cantare il quotidiano e il conflitto di un mondo che cambia. La transizione dalla canzone di guapparia a quella di camorra vera e propria si consuma tra gli anni sessanta e gli anni settanta, ed ha per protagonisti principali, anche se non assoluti, due uomini-simbolo d'eccezione quali Pino Mauro e Mario Merola.
È forse con loro che comincia il razzismo antropologico-musicale che dura a tutt'oggi, per il quale si riesce a ignorare che le interpretazioni e l'emissione vocale di Merola sono l'esempio più evidente di come le radici di un'espressività secolare riescano a rivivere in contesti mutati senza perdere niente in potenza e drammaticità. Certo non tutti parlavano male di Merola, non sempre si riusciva ad ignorare che era (è) forse il migliore esecutore di una parte del repertorio classico, ma alla fine restava un cafone, un camorrista, proprio come D'Angelo sarà un tamarro e Franco Ricciardi o Ida Rendano i cantanti bagani.
Non parliamo poi, addirittura, del vero re della sceneggiata di quegli anni, Pino Mauro, che pagherà la vicinanza culturale e materiale con i settori meno rispettabili della società napoletana con diversi mesi di galera. Erano d'altronde gli anni nei quali anche rispettabili presentatori televisivi finivano in prigione senza troppi complimenti né prove, figuriamoci uomini di spettacolo cosi poco raccomandabili. Come ebbe a dire Mario Merola il quale, manco a dirlo, ebbe problemi dello stesso tipo: "Che faccio, quando vado a cantare per uno gli chiedo il certificato antimafia?". Come gli oggi osannati rappers americani, osannati soprattutto quando si fanno ammazzare come Tupac Shakur, Mauro e Merola erano gente della strada che cantava per gente della strada, con tutti i rischi connessi, destinati a condividerne la sorte almeno in parte. I cantori della guapparia incattivita, ed erano tanti, tra i quali bisogna ricordare almeno Enzo Di Domenico, uno dei pochi a poter gareggiare con Pino Mauro nella truculenza dei testi, segnarono lo smarrimento di quella Napoli che stava da secoli in equilibrio tra la violenza obbligatoria della dignità e la dignitosa opportunità del lasciar vivere.
Gli apparati dello Stato, spinti dalla paura di perdere il controllo di quell'insofferenza che nelle strade e nelle piazze finiva sempre più spesso per assomigliare ad una rivolta generalizzata, si adoperarono per distruggere esplicitamente oppure occultamente, ma sempre con estrema violenza, il vecchio tessuto sociale, quello che si poteva riconoscere nei codici di onore e lealtà. Lo fecero con le forze dell'ordine e con i servizi segreti dediti al controllo sociale, lo fecero buttando nelle piazze eroina a tonnellate, lo fecero con gli urbanisti, gli architetti, i palazzinari, gli ingegneri, i costruttori, favorendo una trasformazione da città in submetropoli con l'edificazione di periferie – i tanti bronx minori che orbitano intorno a Napoli – che stanno ancora lì, stipate di gente, a gridare vendetta, e per le quali ci vorranno decenni o secoli affinché diventino dei posti almeno parzialmente umani. E furono sempre quegli apparati, uomini d'affari, politici, i loro appalti e le loro tangenti che andarono a finanziare le fazioni più aggressive e sanguinarie della camorra.
Chi non ne avesse memoria può accomodarsi alla più vicina emeroteca e darsi una ripassata di cronache quotidiane di scontri a fuoco dentro Poggioreale, morti ammazzati previo tortura, rivali sbudellati in carcere con modalità che i film di Dario Argento in confronto sembrano fiabe di Andersen, decapitazioni con testa sul sedile dell'auto, evirazioni di cantanti che erano incappati nell'amante sbagliata, tumulazioni in cemento armato. Cronache di una degenerazione da inferno dantesco che questa città vive, anche se in modo attenuato, e paga ancora oggi.
In una tale atmosfera ogni disco dei cantanti più famosi e rappresentativi, che usano ormai comunemente batteria, chitarra e basso elettrici enfatizzandone i lati sonori più cupi e minacciosi, diventa un concentrato di disperazione e di rancore che trasuda odio da ogni solco: dieci morti ad Lp, ogni canzone uno schizzo di sangue.
Per riuscire ad avere un'immagine più chiara di questa situazione contraddittoria che le musiche di Napoli esprimevano, vale la pena tornare brevemente all'altra musica napoletana.
Durante quegli anni settanta la canzone venuta fuori dalla sceneggiata era diventata ormai irrimediabilmente e definitivamente poco perbene, mentre davano il meglio di sé i musicisti che riflettevano il fermento culturale di quegli anni, che non subivano passivamente quei rivolgimenti, ma avendo i mezzi culturali per rivolgersi agli studenti e agli operai – e agli intellettuali che ne parassitavano le energie – cercarono di esserne la voce amplificata.
Singolare è che da una parte si rifiutava praticamente in blocco una parte della tradizione, quella della sceneggiata e della canzone di malavita appunto, facendo aperto ostracismo nei confronti di capolavori drammatici come 'O zappatore in quanto associati con l'immagine di Merola, dall'altra si accoglieva trionfalmente il miracolo di cui fu artefice De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
De Simone fu capace di riesumare musiche che, almeno nella città, erano morte o agonizzanti, reimportandole dalle campagne, ridefinendo i canoni della musica popolare/tradizionale riconvertendola in musica folkloristico/massmediale. 'E Zezi continuano a prendersela con la NCCP in ogni intervista, dicendo che falsavano gli stili originali, ma è un fatto che da quando uscì Li sarracini adorano lu sole chiunque pensasse a una tammurriata – e che non fosse nato dove le tammurriate le facevano ancora, è ovvio – andava con la mente alla Tammurriata alli uno. La NCCP di sicuro trasformava, se falsava o no è giudizio che lascio con piacere ai puristi, ma l'enorme comunicativa e bravura anche tecnica dei suoi componenti, dal vivo poi una vera forza della natura, rendeva questa trasformazione ben più che dignitosa. Forse sono stati loro che, insieme a Napoli Centrale, hanno inciso più profondamente nel futuro di quella musica alternativa napoletana, tanto incantata ed entusiasta quanto disillusa e amara era quella delle canzoni 'nziste.
Per entrambe, negli anni ottanta, niente sarebbe rimasto immutato.
Senza chiedere permesso, nasce una stella
È impreciso dire che tutto cambia, piuttosto ci si deve rendere conto, volenti o nolenti, di come tutto sia cambiato. Lo svanire del sogno di una rivoluzione che sembrava imminente, il passaggio dal contrabbando di sigarette all'import-export di eroina e cocaina, il terremoto e i soldi che arrivarono – e come, e a chi arrivarono – la scoperta che il Partito Comunista una volta al potere era partito come tutti gli altri, fecero capire quali erano i veri anni di piombo: non quelli passati, ma quelli a venire.
Si prospettava una vita di tutti i giorni dove i miti del rampantismo e del benessere economico facevano da palude intorno ad una ribellione senza più spazio per muoversi. Il pubblico del poprock prende atto dell'aria che tira e rapidamente sceglie Pino Daniele e la sua band come soli rappresentanti di una confusa resistenza con l'arma estrema della appocundria.
In altri quartieri, nella stessa città, o negli stessi quartieri ma in palazzi e appartamenti diversi, il fondo era già stato toccato, e dopo anni di benzinai ammazzati sotto i ponti delle autostrade c'era bisogno di sentire qualcosa di diverso.
Questo qualcosa di diverso si materializzò in due ragazzi che in maniera graduale ma decisa cominciarono ad operare una virata rispetto ai contenuti delle canzoni. Questi due ragazzi si chiamavano Patrizio e Nino D'Angelo. Anche se è difficile quantificare il successo in un ambito così particolare, è probabile che le passioni scatenate da Patrizio fossero anche maggiori di quelle suscitate da Nino, ma avendo incontrato troppo presto sulla sua strada gli stessi espedienti ricreativi di Janis Joplin, Sid Vicious e tanti altri, oggi Patrizio non è qui a godersi le intuizioni di vent'anni fa.
Fortunatamente D'Angelo non fu solo più saggio, più fortunato e più caparbio, ma è anche un eccellente narratore della sua storia, e così si può rimandare direttamente ai suoi racconti del difficile inizio carriera per capire fino in fondo le motivazioni che lo spinsero a fare una scelta precisa, e in quali condizioni questa scelta fu fatta.
La notorietà di Nino D'Angelo nasce con la canzone di uno scippo andato male, incollandosi le copertine dei 45 giri a casa e portandoli in giro per i negozi dicendo che il cantante era un ipotetico fratello carcerato. Però sull'album mette insieme canzoni che sono ancora di violenza e risentimento ('O primogenito, storia di uno studente universitario che vendica l'uccisione del padre) con quelle che saranno, come dice lui, le canzoni per le ragazzine, dove cambiano contenuti e linguaggio, canzoni d'amore di una semplicità disarmante, e sottolinearne lo scarso merito letterario è un gioco fin troppo facile.
Nel frattempo le pressioni per farlo diventare una nuova star della canzone calibro nove sono forti, ma D'Angelo si impunta, arriva anche a smettere di cantare, torna a vendere gelati, e alla fine la avrà vinta: Popcorn e patatine, 'Nu jeans e 'na maglietta, 'A discoteca, finalmente le ragazzine, che non erano più quelle di venti o di dieci anni prima, hanno qualcuno che canta per loro, hanno i loro film. La loro riconoscenza e la loro devozione saranno totali: riempiono i cinema dove vengono proiettati i film che vedono Nino protagonista, si fermano in adorazione davanti ai suoi manifesti, lo eleggono modello assoluto di bellezza – secondo canoni decisamente poco hollywoodiani – e di conseguenza Napoli si popola di caschetti biondi di ragazzi che cercano di assomigliare all'idolo.
Per almeno dieci anni sarà il punto di riferimento indiscusso, amato o odiato, della nuova canzone melodica, ed un'intera classe di cantanti napoletani – occhio e croce direi alcune centinaia – crescono all'ombra del suo successo e pendendo dalle sue labbra, anche chi magari aveva cominciato prima di lui. D'Angelo sarà un anticipatore delle nuove tematiche erotico-sentimentali, un anticipatore del rinnovamento dei suoni e un anticipatore della fierezza dell'appartenere al popolo. A tal proposito è molto significativa la filmografia dangeliana dove spesso, accanto all'orgoglio della raggiunta celebrità, si trova una chiara scelta di campo: di fronte alla tentazione del mondo dei benestanti, in particolare quello delle signorine della Napoli bene, il ragazzo di umili origini arrivato al successo sbanda e rischia di perdersi, ma alla fine, in un modo o nell'altro, riesce a riconquistare la propria identità.
Certo il messaggio è incredibilmente ingenuo, ma si ricordi che erano film che venivano proiettati negli anni in cui i media ci bombardavano con gli orologi sul polsino e la Milano da bere e le donne manager. D'Angelo era, come il suo pubblico, un inconveniente incontrollabile, che procedeva irresistibilmente in controtendenza, e ci sono voluti anni perché ciò gli potesse venir perdonato e fosse accettato, come lo è oggi, magari storcendo un po' il naso o con un occhio ipocritamente sociologico, al festival di Venezia o nei teatri importanti.
Perché dei testi così "brutti"?
Il rifiuto per la neomelodica viene quasi sempre, se si arriva a discuterne, basato su due motivi: il tipo di emissione vocale e la qualità dei testi.
Devo confessare che l'orrore per quella voce che esce tra la gola e il naso, spostandosi più in giù o più in su a seconda dei cantanti, continua a lasciarmi perplesso: mi sembra paradossale il fatto che siamo molto più disposti ad ascoltare il cante hondo degli andalusi o i vocalizzi dei cantanti magrebini o dei cori bulgari che non le modulazioni di Mauro Nardi o di Mimmo Taurino. L'unica spiegazione che riesco a dare è che tale vocalità viene sentita come la manifestazione più caratteristica di tutto quel mondo espressivo ritenuto estraneo, ostile, violento e retrogrado. Una voce che canta in quel modo – anche Barra e Mauriello cantano in modo simile, ma a contesto mutato nessuno trova niente da ridire – è volgare e viene rifiutata.
Diversa è la questione dei testi. È facilissimo rilevare, nell'ambito delle nuove canzoni melodiche, frasi di assoluta ineleganza, espressioni artificiose al punto di risultare fastidiose, patetici recitativi, mentre è difficile trovare una scrittura meditata e ben costruita. Questo è probabilmente il punto debole di tutta la neomelodica degli anni ottanta: la realtà quotidiana viene spesso espressa in una strana lingua a metà tra un napoletano impoverito e una specie di italiano da fotoromanzi ("maledetto treno", chi userebbe mai parole del genere per parlare?), con risultati opposti a quelli ottenuti da Pino Daniele che invece era riuscito a prendere il meglio delle due lingue.
Il fatto è che quella particolare realtà quotidiana aspettava da chissà quanto tempo di essere raccontata, e ne aveva urgenza assoluta. Una devastante rivoluzione dei costumi, continuamente in atto ed effettivamente in via di realizzazione, non ipotetica come quella politica o sociale che altri avevano lungamente atteso, poneva le ragazze e i ragazzi delle fasce meno scolarizzate in aperto conflitto con quei valori tradizionali che la canzone napoletana aveva cantato sino ad allora. D'Angelo e i suoi colleghi saranno i cantori degli inni di questa rivoluzione.
La verginità e la purezza smettono gradualmente ma definitivamente di essere dei valori da difendere, la fedeltà e il tradimento acquistano una serie di sfumature e di significati impensabili fino a pochi anni prima. Si parla molto di sentimenti ma, sempre di più, si parla di sesso. Ragazze madri, separazioni non consensuali, veri amori intralciati da matrimoni falliti, passioni contrastate da innamoramenti contemporanei, abbandoni impediti dallo scrupolo dei figli, è tutta un'incessante descrizione e propaganda della liberazione sessuale ed affettiva. Si badi bene che qui si parla di un processo che a tutt'oggi è ancora in pieno sviluppo, nel quale si possono facilmente sentire testi che esprimono posizioni tradizionaliste ('na guagliona seria nun va 'o mare senza 'e me / 'na guagliona seria resta a casa a m'aspetta'…) ma che descrivono alla fin fine delle figure perdenti, e con il passar del tempo divengono sempre più marginali.
Era talmente tanta la strada da fare, tanto importante quello che c'era da cantare, che il tempo per l'elaborazione non c'era, bastavano poche e semplici parole. L'importante era che i contenuti fossero ben chiari e che le voci e le melodie che li sostenevano fossero capaci di agire da cassa di risonanza dei desideri. E sono voci e melodie che hanno assolto in pieno alla loro funzione, facendo risuonare l'amore e il sesso in tutti i vicoli e in tutte le periferie di Napoli e in tante zone di Italia, anche abbastanza insospettabili.
Quella strada non è ancora finita, la liberazione dai tabù della famiglia di cemento armato è dura da raggiungere. Certo a molti lettori progressisti sembrerebbe quasi esotico sentire le ragazzine che richiedono alla radio il pezzo Voglio la libertà cantato da Stefania Lay che racconta la ribellione di una sedicenne segregata in casa e picchiata dal marito, ma quella è la storia che tante di quelle ragazzine vivono tutti i giorni. È la loro guerra e quelle parole sgraziate non sono raffinata poesia, sono le armi per combatterla.
Sonorità e diffusione
Mentre il poprock napoletano aveva i mezzi innanzitutto culturali e in secondo luogo economici per affrontare al meglio la ristrutturazione tecnologica dei suoni, che divennero elettrici prima ed elettronici poi, i nuovi melodici ebbero un approccio di tipo totalmente pragmatico. Raccoglievano in eredità dagli anni sessanta il modello del piccolo combo elettrico, magari con sax, associato se possibile ad un'orchestra, analogamente a quanto succedeva nella musica leggera italiana, con abbondanza di archi ritenuti negli anni precedenti assolutamente indispensabili in una produzione di buon livello.
I nuovi strumenti, cioè le tastiere elettroniche che sono alla base di quasi tutto il pop contemporaneo, non servivano certo ad inventare suoni nuovi, piuttosto imitavano – alla buona – i suoni vecchi e quelli americani ma, soprattutto, permettevano di ottenere con uno sforzo relativamente limitato una grande quantità di musica, minimizzando così tanto i costi di registrazione quanto quelli dei concerti.
Per quasi tutti gli anni ottanta la strumentazione neomelodica è consistita per buona parte di questi strumenti elettrici ed elettronici utilizzati in modo poco più che rudimentale che risultavano, ad orecchie abituate al pop internazionale, ancora una volta, insopportabili.
Ma se i testi funzionavano pur essendo evidentemente naive, figurarsi se qualcuno prestava attenzione alle carenze dei suoni: era stato compito di James Senese, Alan Sorrenti – il primo, non il figlio delle stelle – e Pino Daniele rielaborare le nuove timbriche in chiave mediterranea, per i cantanti napoletani l'importante era che suonassero chiaro e ben forte, facendo da adeguato supporto alla voce, alla fin fine l'unico strumento davvero importante.
Anche in questo D'Angelo precederà e aprirà la strada agli altri, questa volta perché in fondo era l'unico ad avere un successo diffuso ed a vendere un numero di dischi tale da giustificare un investimento in musicisti ed arrangiatori da parte della casa discografica, investimento che lo ha portato in questi ultimi anni ad incidere lavori che per sonorità non hanno niente da invidiare ai prodotti del pop nazionale, seguito e a volte superato, di recente, da altri cantanti meno celebri.
Viceversa, la gran parte dei cantanti neomelodici continua tuttora ad essere accompagnata da una musica che, se non è più così grezza, resta molto poco elaborata. Cosa che ha una sua spiegazione, che non è naturalmente "l'ignoranza musicale", ma sta nella natura dei canali di diffusione di questa musica.
Se D'Angelo ha, ormai da anni, un circuito che prevede concerti nei palasport e nei teatri, tanti dischi venduti, apparizioni in televisione e a San Remo e se intorno a lui sembra perfino rompersi quella cappa di isolamento durata quindici anni e più, sono pochissimi gli altri cantanti napoletani che possono ambire a seguirne le orme su questa strada.
Tanto per cominciare, già era relativamente basso il numero di coloro ai quali veniva data la possibilità di stampare un disco, ma veramente pochi sono quelli che riescono ad incidere un cd, mentre la quasi totalità del mercato è coperto da cassette più o meno illegali, che vengono vendute sulle bancarelle ad un prezzo che oscilla tra le tre e le cinquemila lire, non pagano tangenti siae e simili, fanno campare un sacco di gente e si sentono anche abbastanza bene. Naturalmente nessuno potrà mai sapere quanti milioni – si, penso che si tratti proprio di milioni – di nastri abbia venduto D'Angelo nella sua carriera, ma nessun maniaco di statistiche del mercato della musica morirà per questo, al massimo resterà convinto che davvero Dalla o Venditti vendono immensamente più di Nino, come risulta dalle cifre ufficiali. Il che è, con tutta probabilità, falso.
Altro canale di diffusione, sicuramente il più importante, sono le radio private. Non i grossi network, beninteso, ma quelle emittenti mediopiccole, piccole o microscopiche che mandano tutto il giorno le telefonate in diretta o i messaggi registrati sulle segreterie collegate alle linee degli unoseisei che permettono a queste stazioni di sopravvivere quasi senza pubblicità.
Questi messaggi, dediche e richieste dei pezzi più sentiti al momento o quelli più capaci di durare nel tempo, hanno dato a queste radio un'immagine ben precisa: sono le radio dell'abbraccio circolare a tutta la fascia d'ascolto, degli auguri di una pronta guarigione a tutti gli ammalati e dei saluti a tutti gli amici di Poggioreale con auguri di una presta libertà. Ma soprattutto sono le radio delle dediche a mia mamma che oggi fa trentatré anni oppure al mio grande amore Ciro che gli dedico "Toccami toccami dai" di Antoine; è l'universo parallelo in modulazioni di frequenza, dove Nino D'Angelo è chiamato Mister D'Angelo, oppure il number one della canzone napoletana, è l'aiuto a essere vivi ed a cercare la felicità quando si fanno i servizi a casa per tenere un basso tirato a specchio, decise a non rassegnarsi ad una condizione miserabile, o si lavora in officina o nelle fabbrichette a mezzo milione al mese a fare scarpe e borse false di Valentino, con la speranza o l'illusione che ascoltare la radio sia un modo di stare insieme agli altri.
Grande sviluppo, anche se non paragonabile a quello radiofonico, hanno avuto negli analoghi canali televisivi programmi incentrati su personaggi della canzone napoletana e sulla trasmissione di videoclip. Le difficoltà tecniche sono lì insormontabili, quasi mai le immagini riescono a tener dietro alle idee e sarebbe ipocrita nascondere che di frequente gli effetti rasentano il ridicolo o il grottesco.
Naturalmente di diritti radiofonici o televisivi neanche a parlarne, e allora di cosa vivono i nostri menestrelli dei giorni qualunque?
I concerti veri e propri sono appannaggio dei pochi nomi più grossi – in questo periodo Franco Ricciardi, Ciro Ricci, Gigi D'Alessio e pochi altri – i quali riescono a richiamare alcune migliaia di persone al palapartenope o al teatrotenda; poi ci sono i concerti nei ristoranti, preferibilmente in coincidenza di occasioni particolari come l'otto marzo o di viaggi di devozione religiosa e gastronomica che le radio stesse organizzano; infine le due occasioni cruciali: matrimoni e feste di piazza.
Sono questi eventi a permettere a un così gran numero di cantanti di vivere, a qualcuno anche di arricchirsi, e ciò costituisce un'altra spiegazione al fatto che la musica sia così semplice, in quanto deve possedere il requisito di essere riproducibile quasi ovunque, anche con strumenti relativamente economici e in luoghi privi di costosi impianti di amplificazione. Tra l'altro tanto il pubblico dei matrimoni quanto quello delle feste di piazza non è pagante, o almeno non paga direttamente, e in definitiva non ha scelto quel cantante o il successivo, magari è andato ad ascoltare Natale Galletta e deve sentire anche Mimmo Taurino, che è tutta un'altra cosa.
Altro che ovattati studi televisivi dove danno mostra di sicurezza e padronanza di sé le star della musica nazionale e internazionale, nelle piazze ci vuole presenza di spirito e scenica, capacità di coinvolgimento e voce senza incertezze. In tanti passano tutti i loro fine settimana su questi ring, per anni, e pochi riusciranno a fare il salto qualitativo sempre sognato, ma sono questi cantanti che portano a tante ragazze e ragazzi di Napoli e del sud la musica della quale non possono fare a meno.
Canzoni di oggi: Gigi D'Alessio
– (…) io stavo pensando a una storia di due ragazzi che stanno insieme, però lei è una ragazza altolocata e isso, per esempio, è 'nu guaglione c'appartene al popolino…
– songh'io.
– comme?
– propr'io.
– ah, si tu?
– eh.
(dal dialogo tra D'Alessio e il suo paroliere che introduce Fotomodelle un po' povere)
(…) meglio così,
dopp''e 'sta telefonata pecché nun sapive 'a strada pe' venì
finalmente aggio capito, tutt'e dduje nun ce putimmo appartene'
si te fa ridere
c''a dummeneca mangiammo sempe 'e ttré
ca giurammo sempe "adda murì mammà"
si ce piaceno 'e canzone quanno so' napulitane
si p'ascì arrubbammo 'a machina 'e papà.(…)
Si d''o Vommero, già tiene chi te vo' nu sacc''e bbene
je stasera me trattengo cu 'e guaglione mmiezo 'a Sanità,
pecché là chi te vo' bbene, pure 'ncopp'o motorino
pe se fa''na cammenata saglie aret''nzieme a te.
(da Fotomodelle un po' povere, di Gigi D'Alessio)
Pretendevi da me che parlassi italiano
perché il dialetto era volgare
la signora per bene, 'a signora 'e stu cazzo
manco 'sta stronza foss' nata a Milazzo…
(da Azzo, me vulive bene, di Franco Staco)
La tematica del conflitto tra napoletani benestanti e istruiti e quelli che non sono né l'uno né l'altro era stata già messa in campo dai film di Nino D'Angelo, e volendo si può risalire indietro nel tempo fino a 'E figlie so' piezze 'e core oppure a 'O zampugnaro 'nnammurato. Ma quello era pur sempre un atteggiamento passivo, un modo di subire la propria inaccettabilità, migliori magari nell'onestà e nei sentimenti, ma tendenzialmente rassegnati alla sconfitta nel gioco dei ruoli sociali, e soprattutto senza spiegare, senza capire. Fino alla comparsa di D'Alessio non mi risulta che qualcuno abbia espresso l'orgoglio della propria bassonapoletanità in maniera così lucida e direttamente contrapposta al Vomero, quella parte di Napoli che cerca di essere una specie di Europa di periferia. D'Alessio lo fa prima con la canzone Mez'ora fa, storia di un uomo che lascia la moglie di origine e cultura da classe media per 'na guagliuncella 'e 'int a 'nu vascio 'a Sanità, che sbaglia l'italiano ma assumiglia 'e chiù a mammà e poi con Fotomodelle un po' povere, della quale è sopra riportato parte del testo.
Non solo per questo D'Alessio rappresenta a mio avviso il riferimento più interessante per capire in quali nuove direzioni potrebbe evolvere la nuova canzone melodica napoletana. Molti dei suoi testi infatti si distaccano notevolmente da quelli dei suoi colleghi per solidità nella costruzione e per un buon uso del napoletano; altrettanto spesso le melodie delle sue canzoni sono bellissime ed anche i suoni e gli arrangiamenti sono curati e adatti, riuscendo a volte ad amalgamare due entità apparentemente inconciliabili come la musica dance sintetica e le armonie napoletane, con risultati per nulla disprezzabili, migliorando di molto ciò che già tentavano altri cantanti come Ricciardi da qualche tempo. D'Alessio, insieme ai suoi parolieri e arrangiatori, ha forse la possibilità di restituire alla canzone napoletana almeno in parte ciò che il tempo ha frammentato e sparpagliato.
E infine, ha una voce assolutamente eccezionale, che non teme nessun confronto. Non a caso il vecchio re, Mario Merola, nel pezzo Cient'anne, gli passa ufficialmente lo scettro, e D'Alessio mostra di meritarlo non fosse altro per quelle corde vocali usate in un modo che viene da qualche parte della nostra storia remota e che è consentito solo a chi di quelle corde ha raggiunto un controllo perfetto. Certo, se fosse un brasiliano scoperto da David Byrne, un giapponese reperito da John Zorn o un algerino trovato da Bill Laswell allora sarebbe molto alla moda e avrebbe i critici musicali a sbavargli dietro. Essendo uno della Sanità deve passare per le forche caudine della canzone classica – la solita vacca sacra – in televisione e sperare che qualcuno di quei giornalisti e uomini di spettacolo per una volta sia abbastanza lucido da capire chi e che cosa sta ascoltando.
Una musica inaccettabile, ma dura a morire
Inizialmente era mia intenzione concludere questo breve discorso introduttivo alla nuova melodica napoletana con una succinta panoramica della nuova canzone melodica napoletana, dai cantanti neomalavitosi come Tommy Riccio a quelli che tentano il salto verso la canzone leggera italiana, in particolare Sal Da Vinci e Gigi Finizio, alle rivisitazioni in chiave ultratrash della macchietta napoletana ad opera di gruppi di travestiti – Le Coccinelle, ai guitti come Bibì e Coco o come l'ineffabile Gigione; ancora, si potrebbe parlare dell'importanza delle voci femminili – Brunella Gori, Marilena, Stefania Lay, Rosy Viola, Antonella Costa tra le altre – delle quali la suprema è Ida Rendano, con la quale tutti sembrano fare a gara per cantare in pezzi composti per due voci; delle ugole d'oro di D'Alessio e Natale Galletta, dei rockettari alla Ricciardi, dei postmeroliani come Mimmo Taurino e Franco Moreno, dei dangeliani come Luciano Caldore e Mimmo D'Onofrio e di chi si pone nel mezzo come Mauro Nardi, Gianni Celeste o Leo Ferrucci, e delle ultime giovani star che cercano di conciliare diverse di queste tendenze, tra le quali va necessariamente citato Ciro Ricci.
Come è facile comprendere ne sarebbe risultata un'arida e inutile sequela di liste, una specie di classificazione zoologica fornita di didascalie che tra sei mesi sarebbe già obsoleta, a causa della dinamicità della scena nella quale compaiono continuamente nuovi protagonisti e spesso i vecchi cambiano stile. E poi, insomma, se l'argomento vi interessa le descrizioni sistematiche sono inutili, accendetevi una radio e mettetevi ad ascoltare.
Preferisco quindi chiudere con poche righe che vogliono testimoniare proprio questo tipo di evoluzione.
Da lungo tempo mio cruccio personale era che, nonostante la neomelodica sia evidentemente una canzone di liberazione, tale liberazione sessuale e dei costumi faceva pur sempre riferimento a qualche morale, per quanto fragile e dubbia potesse essere. Mai una bella canzone amorale e libertaria fino in fondo. Sono rimasto quindi folgorato dall'ascolto di 'O panaro, di Luca Vignati, cantante a me precedentemente ignoto, ma che con questa performance è balzato ai primi posti della mia personale classifica di gradimento. Altro che Legalize it o Piantatela, qui non c'è nessuna giustificazione, nessuna distinzione tra droghe pesanti e leggere, nessuna moderazione. È un inno alla gioia delle sostanze psicoattive (veloci), utilizzate per una buona causa, per recuperare l'amore perduto di Carmelina, tramite l'intercessione del nonno della stessa opportunamente iniziato alle pratiche ludiche in questione.
M'aggio accattato 'nu panaro 'e droga
addivinate pe ne fa' che?
Faccio sballà tutt'a famiglia
'o pate, 'a mamma, 'o nonno e 'a figlia…
Queste e altre delizie può riservarvi il vostro apparecchio radiofonico, sempre, beninteso, che i vostri comodi paraorecchie non vi impediscano di ascoltare la musica dei tamarri, una musica nonostante tutto dura a morire, che può fare tranquillamente a meno dell'industria discografica, dei mass media, di voi e di me.
Giuseppe Aiello
(originariamente pubblicato in: Giuseppe Aiello, Stefano De Matteis, Salvatore Palomba, Pasquale Scialò, Concerto Napoletano – La canzone dagli anni settanta a oggi – con interviste e testi di Almamegretta, Sergio Bruni, Nino D'Angelo, Pino Daniele, Angela Luce. Argo, 1997)