Per anni è stata ripetuta un’immagine, una domanda retorica che descriveva una possibilità che appariva catastrofica ma lontana, e in fondo in fondo irrealizzabile. Chiara, chiarissima e poco credibile: “Cosa succederà quando un miliardo di cinesi vorranno avere gli stessi consumi delle nazioni industrializzate?”.
La risposta stava in un sospiro, sopracciglio sollevato e una finta aria preoccupata. I documentari sulla produzione in Cina che passavano in televisione a tarda sera mostravano che il problema principale dell’apparato politico, e dunque di quello produttivo, era di trovare una collocazione alla manodopera in eccedenza. Erano delle figure bizzarre, esotiche ed obsolete, quelle degli operai e operaie dagli occhi sottili che compivano gesti, come confezionare cibi manualmente, che già da anni nelle fabbriche occidentali erano completamente scomparsi, sostituiti dalla meccanizzazione. Usciti dalla fabbrica i lavoratori cinesi non salivano in automobile ma inforcavano la bicicletta, lasciandoci tranquilli riguardo le loro emissioni nell’atmosfera – insomma, gente arretrata, che inquinava poco. Erano tanti, è vero, ma si sapeva che i cinesi si spostavano con discrezione, dopo i minacciosi flussi migratorî dell’ottocento (a un certo punto, con il Chinese Exclusion Act del 1882, i governanti statunitensi avevano addirittura bloccato l’immigrazione cinese) – e il grande timoniere preferiva tenerseli tutti in casa.
Ordunque, come dovrebbe essere ben noto, ci sono alcune novità.
Per prima cosa i consumi delle nazioni industrializzate e postindustriali, che già parevano sproporzionati e insostenibili 20 anni fa non si sono affatto stabilizzati, ma continuano a crescere. Benché la politica progressista e l’ecologismo moderato abbiano sottolineato con petulanza il bisogno di una diversa qualità della produzione non c’è alcuna evidenza di un percorso in tal senso. Per ogni materiale nocivo che viene proibito (come l’amianto) altri cento prodotti (ogm, antidepressivi, conservanti, vaccini, dolcificanti, solventi, campetti di calcio…) vengono sperimentati su popolazioni impossibilitate ad orientarsi a causa dalla sovrabbondanza di informazioni, quasi tutte errate o fuorvianti, e dunque incapaci di difendersi. Inoltre, pare che l’oriente abbia deciso di essere vivamente interessato ad uno stile di consumo occidentale. Ma siccome la concorrenza è impietosa e la crescita impetuosa, gli orientali hanno inevitabilmente peggiorato, da un punto di vista ambientale, le caratteristiche della produzione. E poi i cinesi non sono più un miliardo, ma un miliardo e duecento milioni, ai quali vanno sommati gli indiani, che sono un altro miliardo, per tacere di indonesiani, coreani e altre centinaia di milioni di persone che ambirebbero a cambiare automobili e vestiti e telefoni e televisori con la nostra stessa frequenza – gente affamata di merci deperibili, assetata di bevande gassate rinchiuse in bottiglie di polietilentereftalato.
Come devastatori noi visipallidi siamo ancora primi in classifica, ma non è detto che ci rimarremo per molto.
Alla mente dei sapiens dei paesi sviluppati raramente però si affaccia il semplice dato che la densità di popolazione del Belgio o della Germania è di gran lunga più alta di quella della Repubblica Popolare Cinese e che se le genti asiatiche volessero prendere come standard demografico il numero di abitanti per kmq non diciamo di Città del Vaticano, ma dei Paesi Bassi, diventeremmo (diventeremo?) davvero parecchi sul pianeta.
Nessuno può avere una precisa idea di quale sia il limite di tolleranza dell’ambiente, tuttavia il sospetto che tale limite possa essere piuttosto vicino comincia a presentarsi, con insistenza.
Il baratro potrebbe essere dietro l’angolo, eppure continuiamo a procedere spediti con passo allegro e risoluto, verso l’abisso.
Guerre dichiarate e non
Delle aggressioni condotte senza sosta dagli eserciti delle nazioni più potenti ai danni dei residenti in paesi militarmente meno attrezzati si parla a sproposito, si dicono falsità senza freno, ma almeno sui massacri di famiglie afgane compiuti dai soldati americani non c’è proprio un silenzio tombale. Già più inquietante è il fatto che questi militari siano attivamente sostenuti, con voti, uomini e denari, da politici italiani che si dichiarano assolutamente contrarî ad ogni guerra, anzi, nonviolenti, pacifisti e pure comunisti (olé). Inquietante non che questi personaggi li supportino o che mentano, mestiere di ogni uomo di potere, ma che ci sia ancora qualcuno che sia disposto a dar loro un voto pensando che se ci fossero quegli altri sarebbe peggio. Peggio di questi? Un pessimismo davvero invincibile…
Le guerre più preoccupanti – o meglio: è preoccupante l’accettazione del silenzio che le circonda – sono quelle delle quali si hanno scarsissime informazioni e quasi nessun commento. Mentre si sprecano tonnellate di carta e migliaia di ore di trasmissioni sulla mamma che ha ucciso il figlio neonato o sulla modella che si è fatta beccare da un fotografo mentre pippava cocaina, i centinaia di morti nelle carceri turche non interessano nessuno, come lo sterminio che il governo indonesiano attua da anni nei confronti dei nativi di Papua con la collaborazione delle multinazionali minerarie e del legno, o i macelli ambientali combinati dalla Benetton in Sudamerica.
Questa è – di per sé – un’altra guerra, nascosta e feroce, l’opera di addomesticamento dell’opinione pubblica. Il martello della propaganda si abbatte senza sosta sulle capacità critiche delle persone, non le convince ma le lascia stremate, rassegnate a non poter sapere, ad uno scetticismo a 360 gradi. Se fosse una vera ed energica sfiducia, del tipo “non credo a nessuno”, sarebbe salutare e potrebbe spingere a credere ai propri occhi.
Così non è. La ripetizione incessante del falso e la sua parzialissima ed episodica contraddizione creano uno stato di ripulsa e di confusione nel quale le notizie e le analisi vengono ignorate o respinte a livello razionale ma accettate subliminalmente. Per cui quand’anche si riesca a dire che in nessun modo è possibile che il Pentagono sia stato centrato da un aereo kamikaze, che non ha senso credere all’ispettore ammazzato a Catania da un ultrà con un lavandino, che Marcello Lonzi sia morto d’infarto o Federico Aldovrandi di overdose, il messaggio complessivo che passa è che in questo mondo violento e confuso abbiamo bisogno di maggiore legalità, i giudici devono essere messi in condizione di lavorare meglio, e soprattutto va data priorità al sostenere le forze dell’ordine con rinnovati uomini e mezzi.
In parole povere, le pecore chiedono al lupo: –“te ne preghiamo, veglia su di noi”.
Sviluppo e produzione
Ci sono alcune osservazioni elementari, addirittura banali, sul sistema di vita che consapevolmente o inconsapevolmente abbiamo adottato, che avrebbero la capacità di mettere in pericolo il ruolo e l’opera dei devastatori. Eppure nessun politico e rarissimi giornalisti osano farne cenno, o solo molto vagamente. Ad esempio il fatto che in nessun modo il prodotto interno lordo di un paese possa essere indicato come indice di benessere della popolazione. Oppure, tanto ovvio da essere triviale, che se vengono messe in vendita automobili che raggiungono i 280 km/h è da cretini pensare che l’acquirente non oltrepasserà i 130. Gli unici che ogni tanto ne fanno cenno sono dei comici, riattivando la figura che credevamo scomparsa – è proprio vero che tutto ritorna – del buffone di corte. Giullari che possono quasi dir tutto, tanto il loro ruolo è quello del mattacchione, che non pretende di essere preso troppo sul serio.
Ma il tabù davanti al quale tutti s’arrestano è quello della produzione. Benché sia palese e sotto gli occhi di tutti che la quasi totalità degli oggetti e dei “servizi” oggi prodotti sono nel migliore dei casi inutili – molto più spesso dannosi – un blocco omertoso impedisce di fare propria una delle poche frasi che abbia senso pronunciare oggi:
se siamo realmente interessati a lasciare alle generazioni future un luogo in cui possano vivere decentemente abbiamo una necessità urgente, che è quella di abbattere radicalmente il ritmo della produzione e fermare l’avanzata dello sviluppo industriale
Così semplice che sembra un nonsenso che nessun politico possa dire mai niente del genere – che ne so, almeno uno dei verdi, giusto per accattivarsi qualche elettore. Niente. Tutti a parlare di sviluppo sostenibile, di nuove e grandi opere pubbliche, di incentivi alla produzione, nuove strade, più aeroporti, riciclaggio dei rifiuti, rottamazione della vecchia macchina, del vecchio frigorifero, della stampante, della caldaia, della dentiera. Di ciò che sarebbe, del tutto ipoteticamente, capace di salvare il pianeta ma nell’immediato fa da propellente per l’industrializzazione e radica la democrazia capitalista. I rappresentanti del popolo fanno corpo unico a difesa di un destino che ci spacciano per ineluttabile, cani da guardia dei propri privilegi e del potere loro e di chi sta alle loro spalle. Alle loro spalle, altri uomini, i quali a volte ghignano dalle pagine delle riviste più diffuse, a volte sono difficili da individuare e altre volte ancora restano totalmente invisibili.
Invisibili ma non intoccabili: quando le popolazioni di un’area minacciata trovano insopportabile l’idea di continuare a subire e bloccano strade e linee ferroviarie, fermano gli ingressi degli impianti inquinanti, sbugiardano i giornalisti, scacciano i politici, si scontrano con i poliziotti, allora questi uomini provano rabbia e paura. Paura che la menzogna traspaia, che scompaia la rassegnazione, che l’impotenza e la frustrazione lascino il posto alla determinazione nel dire “questa è casa mia e non ve la lascerò distruggere”.
Allora tolgono guinzaglio e museruola ai loro mastini.
Colpevolizzare il consumatore: il ricatto dell’inattuabile
Il primo e più importante compito degli ingannatori è quello di spostare il bersaglio: se una produzione è evidentemente nociva potrebbe risultare palese che la sua fabbricazione dovrebbe essere terminata immediatamente (ad esempio gli imballaggi composti da carta e plastica, irrimediabilmente non riciclabili né riutilizzabili). Perché a nessuno venga in mente che le cose siano così semplici e dirette (e lo sono) entra in campo l’aggressione colpevolizzante verso l’individuo in quanto acquirente e consumatore. La colpa è tua che non consumi adeguatamente, che non acquisti consapevolmente, che non ricicli abbastanza. Il giorno in cui lo farai e insieme a te lo farà tutta la popolazione allora il mondo sarà in salvo.
Questa, benché ripetuta a gran voce specialmente dalle forze progressiste e dai varî gruppi ecologisti, sostenibili, equi e solidali, è una posizione non solo astratta e irrealizzabile, ma fuorviante e menzognera. Il destino di un luogo non può essere in alcun modo preservato dal consumo meditato di minoranze istruite, questo può avere una qualche valenza solo se costituisce il corollario di una radicale critica al sistema produttivo.
Un contadino di 70 anni fa non aveva alcuna coscienza ecologista, ma gestiva come risorsa gli oggetti (legno, scarti di cibo e di produzione), semplicemente perché lo richiedeva quel tipo di produzione. Utilizzare era conveniente. L’allevamento consentiva di convertire cibo inadatto al consumo umano in carne, uova, latte e derivati. La spazzatura non esisteva, poiché ciò che veniva bruciato non aveva la possibilità di produrre diossina, e quello che veniva interrato era a disposizione di artropodi, batteri e soci varî che ne facevano ritornare le componenti in gioco. Da alcuni decenni tante campagne sono diventate dei posti disgustosi e impestati. I coltivatori, culturalmente ed economicamente disarmati di fronte alle incessanti novità e necessità del mercato, hanno continuato a fare come hanno sempre fatto, usando pesticidi come fossero poltiglia bordolese e corda di plastica come fosse ginestra o salice. Di conseguenza, le campagne si riempiono di spazzatura e le cellule cancerogene vivono stagioni trionfali. La colpa sarebbe dunque dei contadini: perché prima di mettersi a zappare la terra non si prendono una bella laurea in scienze ecologiche ed educazione ambientale?
In questo modo molti ecologisti si mettono senza saperlo al servizio della rovina capitalistica, centrando tutto ed esclusivamente sull’educazione del singolo individuo ed omettendo l’opposizione all’industrializzazione – ignorando la possibilità di un attacco diretto ai dogmi della produzione di massa. Il personale e il generale hanno qualche possibilità quando sono indissolubilmente connessi tra di loro, separare i due ambiti significa rendere innocuo qualsiasi desiderio.
Un metodo simmetrico di colpevolizzazione è quello di chiamare in gioco una presunta “mentalità”, per la quale se, ad esempio, la Campania trabocca di rifiuti è colpa dei suoi abitanti, prima di tutti i napoletani che trattano con indifferenza il loro territorio: fatui, disordinati, scialacquatori e pure un poco criminali. Sovrabbondano spiegazioni patetiche del tipo: “è una mentalità derivata dalla cultura borbonica…” – oppure: “è comprensibile in un popolo che è sempre stato dominato da stranieri”. Inoltre, da poco tempo, sono egoisti perché non vogliono discariche sulle loro terre. Il dato che i rifiuti più pericolosi sono quelli delle industrie lombarde con i quali i poteri economici politici e militari hanno avvelenato la Terra di Lavoro e ingrassato la camorra è ampiamente riconosciuto, ma, al solito, quasi nessuno se ne preoccupa quando si tratta di comprendere com’è possbile che la Campania felix sia stata ridotta ad una latrina chimica. La produzione diviene competitiva grazie al fatto di non doversi occupare di smaltimento – la camorra ha tenuto buone le popolazioni locali, garantita nel suo ruolo di traino dello sviluppo dai soliti poteri, dai soliti uomini.
Anche a questa semplice evidenza c’è una risposta di routine: ma questo è complottismo, questa è paranoia dietrologica. Come se fosse stato possibile far attraversare l’Italia da migliaia di tonnellate di scorie mortali senza un’adeguata copertura. Di chi? Mica è difficile immaginarlo, gli stessi che hanno zuccherato il caffè a Sindona, portato Calvi in gita a Londra, organizzato i fuochi d’artificio a Piazza Fontana e a Portella della Ginestra, steso un tappeto rosso a Lucky Luciano.
Ma suvvia, non pensiamoci, è così più comodo pensare che sia la mentalità dei napoletani ad essere sbagliata…
Segnali di vita e nuove leggi per metterli a tacere
Il maestro si fece scuro in faccia, aprì due o tre volte la vucca come per parlare, la richiuse.
«Che c’è?» spiò il commendatore.
«Mi perdoni una domanda, e questo non è un modo di dire, me la perdoni per davvero, la domanda. Ma u zu Memè non se la piglierà a male?»
Gli occhi del commendatore si fecero friddi friddi.
«Memè è la mosca che si posa sulla merda.[…]»
Andrea Camilleri, Il birraio di Preston, Sellerio editore, 1995.
Nonostante tutto, a fatica, le domande più semplici si fanno largo.
“Perché l’inceneritore (che adesso si chiama termovalorizzatore) se è innocuo lo fanno sotto casa mia e non accanto alla villa del presidente del consiglio?”
Sempre più persone si stanno rendendo conto che l’unica speranza risiede in un sano egoismo in difesa del proprio territorio. Se tutti difenderanno il proprio territorio tutti i territorî diverranno vivibili. La fine dell’industrializzazione. Per molteplici ragioni questo sarà scarsamente tollerato dagli uomini di potere. Che dicono e diranno: non dovete fare da voi, dovete affidarvi a chi farà delle leggi giuste, e con leggi giuste sarete tutelati voi e ciò a cui tenete, con qualche piccolo sacrificio in nome dell’interesse collettivo.
Come se fosse stato legale portare cadmio, mercurio, arsenico, diossina e fanghi tossici di ogni tipo nelle discariche del casertano. Non era legale, ma è stato fatto, e continua ad essere fatto. E se smetteranno non sarà perché è illegale, o perché dei magistrati integri faranno arrestare dei camorristi: smetteranno solo quando la protesta popolare diverrà una minaccia. Perché ogni famiglia ha i suoi morti di cancro, allora tanto vale finire in galera o morire sparati, almeno si crepa con dignità, che non è consolazione da poco, come sapevano bene i rivoltosi dei lager nazisti. Useranno tutti i loro mezzi, tutti gli uomini alle loro dipendenze, quelli con la divisa e quelli con i kalashnikov, arresteranno, picchieranno e faranno uccidere della gente, e poi sposteranno i loro affari. Portare i veleni in Africa o in Asia sarà leggermente più costoso, ma saranno costretti a farlo, fino a quando anche le popolazioni di quei luoghi si ribelleranno, e allora ci saranno altri morti e altre guerre, e poi chissà.
Questo nella più ottimistica delle previsioni. Delle altre per il momento non vale la pena parlarne, la catastrofe potrebbe essere dietro l’angolo ed abbiamo necessità di sentimenti positivi. Hai visto mai, potrebbero sempre tornare utili, nel deserto prossimo venturo.