Diario di viaggio n. 2

Diario di Viaggio

di un cavernicolo vinilitico casualmente in transito nel millennio sbagliato

giugno 2006, n. 2

Cercatelo, registratelo o scaricatelo e poi venitemi a raccontare che effetto vi fa. L’inizio ricorda vagamente Imagine di John Lennon, con un piano elettrico e una chitarrina parimenti anemici che mettono in croce quattro accordi da falò dei boyscout. Subito dopo parte una voce che rimanda metà a Gianni Bella e metà a Dario Baldambembo e metà a Marco Ferradini e metà a Drupi. La musica sembra composta da Riccardo Cocciante in combutta con Antonello Venditti su commissione della casa discografica per farla cantare ai Dik Dik a San Remo ’72.

Il testo cominciava così: Sta nel fondo dei tuoi occhi / sulla punta delle labbra / sta nel corpo risvegliato / nella fine del peccato / nella curva dei tuoi fianchi/ nel calore del tuo seno / nel profondo del tuo ventre / nell’attendere il mattino…

 
E fin qui sembra di stare in piena area Cugini di Campagna, eppure Ma chi ha detto che non c’è di Gianfranco Manfredi fu un inno rivoluzionario dei giovani extraparlamentari, non certo per le innovazioni proposte in senso strettamente musicale, ma proprio per lo sviluppo del testo, capace di sintetizzare – in una poetica che oggi ci giunge carica di retorica ma che al tempo risultava molto efficace – vissuto e desideri, quotidiano e futuro. Oggi ne è restata scarsa memoria, di quegli anni si preferisce rammentare Arbeit macht frei degli Area o Fetus di Battiato ed è giusto, erano davvero grandi dischi. Però non avevano e non potevano avere una qualità essenziale di Ma chi ha detto, come pure delle ancor più celebri ed epiche Contessa o I morti di Reggio Emilia: erano ballate, si potevano cantare, insomma – erano pop. Prendevi una chitarra, imparavi giusto giusto a metterci le mani sopra e già facevi un figurone davanti alle compagne (come raccontava il buon Guccini, dovevi però assicurarti che al momento giusto ci fosse chi ti manteneva la chitarra, sennò era tutta fatica sprecata). E in quel caso, a cantare: L'esotomia, I'IBM-azione, / de-cloro-de-fenilchetone, / essedi-etilizzazione / han dato vita alla programmazione (1) avrebbe pure potuto dare all’esecutore un profilo esoterico e raffinato, ma non funzionava. Il pop deve restare in testa, o far battere il piede, o far pogare, o commuovere, o far ballare, insomma, a qualche livello al di fuori della razionalità, deve – ripeto – funzionare. Che sia l’interrogativo iroso “Do they owe us a living?” (2) o quello amareggiato “'O ssaje ca mamma toja more e te chiamma?” (3) se lo percepisci solo nella mente consapevole e non senti qualcosa che si smuove dentro non è pop. Non è il tuo pop.

A me piace il pop (il mio pop). Mi piacciono Faceva il palo, I reduci e Canzona appassiunata. Ancora più facile quando sono in inglese, perché il testo o non lo capisci bene, o non lo capisci affatto o te lo scordi, in ogni caso è difficile che ti venga a noia. Ho una venerazione infantile per Jumping jack flash, Guns of Brixton e Pretty vacant (ah, se @punx che chiama i Sex Pistols “merde” sapesse che, senza gente come loro, adesso andrebbe in giro con un magnifico caschettone alla Ricky Ramone…). Le ho sentite migliaia di volte e suppongo che le riascolterò per tutta la vita. Sì, magari quando ti vai a tradurre i testi delle canzoni inglesi queste perdono parzialmente il loro fascino, come ben sa chi ha provato a verificare cosa si celava dietro gli innumerevoli “baby-baby” dei Led Zeppelin (4).

Dunque, in questo senso i giamaicani fanno da decenni grandissima musica pop, e se ne accorsero moltitudini di punk che verificarono come il somministrare robuste iniezioni di plastici ondeggiamenti reggae al secco e rabbioso nuovo rock’n’roll aveva delle potenzialità straordinarie. E mica si sono fermati ad I shot the sheriff. No, si sono evoluti e rinnovano continuamente voci e sonorità. E infatti niente è di moda tra i giovani alternativi quanto una bella dancehall giamaicaneggiante. Hanno una capacità di far collimare ritmi e voci tali da costringere il corpo a muoversi, gente come Elephant Man, Buju Banton, Sizzla, hanno energie mostruose.

Purtroppo, siccome la mia formazione culturale è radicata in un millennio ormai lontano, se mi piace una musica io dopo un po’ voglio sapere anche ‘sta gente che dice, chi sono, che rappresentano, e qui l’affare diventa ispido.

Sono andato, ho guardato, e le sorprese non sono state buone. Tra l’altro essendo assai poco aggiornato ho scoperto che l’incresciosa questione di cui vi riferisco è dibattuta già da anni, ma io niente ne sapevo.

In parte gli ascoltatori nostrani sono giustificati dalla scarsa comprensibilità del patois giamaicano – voi che capite da un: Mi a go shot batty bwai dem widdi weapon ya oppure Hang chi chi gal wid a long piece of rope? Niente, vero? Allora, siccome ho studiato, vi spiego: “batty bwai” sta per gay (traduzione padaneggiante orrenda ma forse più letterale: “culattone”), “chi chi” è un altro termine dispregiativo per indicare gli omosessuali, quindi una “chi chi gal (girl)” sarebbe una lesbica. Dunque quando ballate Sizzla magari state ascoltando uno che dice: “vado con un’arma e sparo ai froci” e se è Beenie Man invece “impicca la lesbica con una lungo pezzo di corda”. Sinceramente, mi sono fermato a questi due, e dopo una sfilza di All batty man fi dead! (5) – fire fi di man dem weh go ride man behind (6) – saddamite and batty bwoie mi say a death fi dem (7), insomma, una sequela di inviti ad ammazzare omosessuali, ne ho avuto abbastanza ed ho rinunciato ad esaminare i testi di Buju Banton o di Elephant Man e molti altri che pure sembra non si tirino indietro in questa gara di omofobia (e di moralismo sessuale: Beenie Man declama anche kill pussy-sucker, e quindi potrebbe non avercela solo con le lesbiche, ma anche con i maschietti che fanno della loro bocca un uso, a suo giudizio, improprio).

Non fraintendiamo: quella che avete tra le mani non è la Pravda dei tempi del compagno Josif Vissarionovič Džugashvili, e non si stanno qui redigendo le direttive del comitato letterario del Soviet Supremo sulle relazioni tra arte popolare e compito storico del proletariato rivoluzionario. Il gioco che può scaturire tra parole e musica non va dato per scontato, né è opportuno banalizzare tale rapporto analizzando un testo e qualificando l’attività di un musicista sedicente rivoluzionario in base a ciò che scrive. Io personalmente preferisco di gran lunga le meditazioni razziali di Mingus (8), o quando i Godspeed You Black Emperor fanno nuova e bella musica ispirata all’avversione per il militarismo statunitense (9) – ma senza profferir parola alcuna – all’ennesimo gruppo punk che sta ancora nel 2006 a strillare slogan su una musica sostanzialmente conservatrice, come se Conflict e Flux of Pink Indians non avessero già venti anni fa stabilito dei punti fermi dai quali si poteva (e doveva) partire, e non inchiodarli al giubbino o al cervello come figurelle di padreppio.

Però mi resta la sensazione, che nel millennio passato certe cose non erano tollerate, anzi, c’era forse un certo bigottismo intransigente di sinistra, mentre oggi la tolleranza è diventata davvero troppa.

Il caso italiano più famoso è quello di Lucio Battisti che si vociferava fosse fascista e addirittura che finanziasse organizzazioni di destra. Rapetti sostiene che era tutta un’invenzione, che Battisti era un’individualista totalmente estraneo alle questioni politiche e che tra l’altro essendo avarissimo si sarebbe ben guardato dal finanziare alcunché, ed è probabile che abbia ragione. Comunque Battisti fu in qualche modo anche vittima dell’uso che i fascisti fecero della sua musica (10), e non avendo mai accettato di dichiarare esplicitamente “non sono fascista”, già dal 1970 smise saggiamente di fare concerti (prima che fosse il movimento a costringerlo). Non so se le vendite dei dischi ebbero a soffrirne (parrebbe di no), ma è certo che tra i militanti di sinistra c’era sempre un po’ di senso di colpa nel canticchiare gli inevitabili versi del micidiale duo Battisti/Mogol.

Oggi, a parte che i testi di questi curiosi personaggi sono fin troppo espliciti e chiari, è significativa la risposta data da Sizzla alle critiche: nessuna scusa ai froci, sono loro che devono chiedere scusa a dio. (11)

E il fatto che tutta la questione sia stata messa in mano a magistratura e polizia – poiché in Europa le associazioni gay hanno comprensibilmente protestato all’annuncio dei concerti dei tizi in questione – è forse il lato più triste della vicenda: trent’anni fa a Sizzla qualche bella molotov sul palco non gliela toglieva nessuno, altro che denunce…

E in Giamaica manco quelle, pare che cantare brani contro i gay sia una specie di garanzia di successo.

A dire il vero non essendo mai stato in Giamaica né conoscendo giamaicani non ho proprio capito perché ce l’hanno tanto con gli omosessuali, che da quelle parti si dice se la passino davvero male. Anzi ero restato a emancipate yourselves from mental slavery (12) e mi ritrovo questa manica di buzzurri omofobi a latrare idiozie sui batty bwai. Ma l’accettazione dei gusti sessuali altrui costituisce sempre un tasto delicato e qualche problema con pratiche non del tutto convenzionali ce l’hanno persone insospettabili. Ad esempio nello scorso numero di a’rraggia si è potuto leggere: “L’uomo moderno è incredibilmente flaccido e molle, adagiato, in una posizione che potrebbe volentieri ricordare la posizione che precede la sodomizzazione. E così il suddetto si trova incredibilmente sodomizzato e inculato; perché? Perché subisce la sodomizzazione da parte degli svaghi proposti da media e quant’altro, conseguentemente inculato, ma anche felice, consenziente e addirittura godereccio”!.

Ora capisco benissimo che PaolAlda usando questo tipo di immagine, ove l’inculata è sinonimo dell’accettazione passiva da parte dell’individuo delle manipolazioni che il potere opera sullo stesso, non stesse volontariamente demonizzando una precisa attività erotica, tuttavia l’accanirsi in questo modo intorno ad una pratica che milioni di persone (sia dotate di pene che di vagina) trovano auspicabile, godibile e interessante, mi lascia assai perplesso. Non è una questione di politically correct ma di comprendere che il linguaggio che usiamo costituisce una parte di noi.

E alla fine siamo tornati alle parole e al linguaggio.

Un’ottima sintesi della complicata interazione testi/musica fu espressa in modo esemplare da un rockettaro per il resto assai naïf – poiché a volte Clio e Calliope si degnano di baciare, chissà perché, delle anime semplici, e così renderle genitrici di versi perfetti – che ebbe così a scrivere: dice: "qui da noi, in fondo, la musica non è male / quello che non reggo sono solo le parole” / ma poi le ritrova ogni volta che va fuori/ dentro ai manifesti o scritte sopra i muri". (13)

Esatto, ogni volta che andava fuori il ragazzotto qualunquista degli anni settanta trovava manifesti, cortei, giornali, scritte sui muri – e nelle canzoni quelle stesse parole, quelle stesse grida che turbinavano nelle piazze e negli anfratti. La vita entrava nella musica e la musica nella vita. Oggi l’ascoltatore di Sizzla e Banton per strada cosa trova? Alternativi con il dread inamidato che pensano che la Giamaica sia il regno della pace e della libertà, sedicenti rivoluzionari con il capo carismatico che fa il presidente della camera, e sui muri, be’, sui muri di solito ci trova la scritta Carraro infame. E come dargli torto.

 

Giuseppe Aiello

(originariamente scritto per a'rraggia

 

P.S.: Ah, dimenticavo di dirvi come andava a finire la canzone di Manfredi:

…sta nel sogno realizzato / sta nel mitra lucidato / nella gioia e nella rabbia / nel distruggere la gabbia / nella morte della scuola, nel rifiuto del lavoro / nella fabbrica deserta, nella casa senza porte / sta nell'immaginazione, nella musica sull'erba / sta nella provocazione, nel lavoro della talpa / nella storia del futuro, nel presente senza storia / nei momenti di ubriachezza, negli istanti di memoria / sta nel nero della pelle, nella festa collettiva / sta nel prendersi la merce / sta nel prendersi la mano, nel tirare i sampietrini / nell'incendio di Milano / nelle spranghe sui fascisti nelle pietre sui gipponi / sta nei sogni dei teppisti / e nei giochi dei bambini / nel conoscersi del corpo / nell'orgasmo della mente / nella voglia più totale / nel discorso trasparente / sta nel fondo dei tuoi occhi / sulla punta delle labbra / sta nel mitra lucidato / nella fine dello Stato. / C'è, sì c'è / ma chi ha detto che non c'è… (14)

 

Note (per lettori accaniti):

1. Fenomenologia. In: Franco Battiato, Fetus, 1971.

2. Do they owe us a living? In: Crass, The feeding of the 5000, 1978.

3. Bovio-Albano, Zappatore, 1929.

4. Citando a caso: “you know I love you, baby, my love for you I could never hide”  oppure “'Cause I love you, baby, How I love you, darling, How I love you, baby”, e così via, all’infinito o quasi. Diciamo la verità, siamo a livello di Umberto Tozzi.

5. “Tutti i froci devono essere ammazzati”, Beenie Man, Weh Yuh No Fi Do, 2004

6. “Brucia l’uomo che cavalca con un uomo dietro”, Sizzla, Pump Up, 2001

7. “Sodomiti e froci, dico: morte a loro”; da To the point, in: Sizzla, Taking over, 2001.

8. Meditations on Integration. In: Charles Mingus, Mingus at Monterey, 1964.

9. Godspeed You! Black Emperor, Yanqui U.X.O., 2002.

10. Alla sua morte il Fronte della Gioventù affisse un manifesto di saluto con sopra scritto “…come può uno scoglio arginare il mare… ” [da: Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…, 1972]; e sappiate che ancora oggi ai fascisti s’inumidisce il bulbo oculare nel cantare “planando sopra boschi di braccia tese…”. [da: La collina dei ciliegi, 1973]. In ogni caso, risulta che i testi li scrivesse il Rapetti, mai accusato di simpatie destrorse, e che difficilmente avrebbe alluso al saluto romano.

11. Sizzla, Nah apologize, 2005.

12. Redemption Song. In: Bob Marley & the Wailers, Uprising, 1980. Trattasi del classico pezzo portafortuna. Marley lo pubblica nell’80 e muore nel 1981; nel 2002 ne registrano una bella versione Joe Strummer e Johnny Cash: il primo passerà a miglior vita pochi mesi dopo, il secondo trapassa l’anno successivo.

13. Eugenio Finardi, Musica ribelle, 1976.

14. In: Gianfranco Manfredi, Ma non è una malattia, 1976.

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