Diario di viaggio n. 1

Diario di viaggio

di un cavernicolo vinilitico casualmente in transito nel millennio sbagliato

febbraio 2006, n. 1

Non era solo un oggetto materiale, molto di più. Era il centro del mondo lontano e libero che arrivava in casa con una copertina bronzea, apribile, 31 x 62 centimetri, un mezzo chilo scarso di cellulosa e cloruro di polivinile, suoni inauditi per noi ragazzini ultraperiferici. Sì lo so che le ossa di Hendrix da tempo biancheggiavano, e che loro erano semplicemente gli avamposti della retroguardia. Ma lo so oggi, allora pareva una porta che si spalancava su universi appena percepiti, e ciò non aveva prezzo. Anzi, ce l’aveva. Un lp costava, vi rammento, cinquemila lire – doppio, diecimila.

 
Qualcuno sa dirmi cosa prevedeva il contratto dei metalmeccanici come busta paga per un operaio nel 1976? Vabbè, ve lo dico io, mio padre (che non era esattamente metalmeccanico, ma fa lo stesso) guadagnava 500mila lire. Siccome un long playing durava circa 40 minuti, si può convertire benissimo uno stipendio in minuti-musica, dunque (500.000/5000) x (40/60) = 66 ore e mezza di musica al mese. Essere in possesso di quell’oggetto significava anche acquisire uno status particolare. Con il suo colore oro-bronzo, una fotografia al centro con loro che suonavano – ricordo delle congas, è possibile o me lo sto inventando? È una vita che non lo vedo – sopra scritto, Deep Purple/Made in Japan. (Come? È del '72 e non del '76? Sì, ma queste cose ci mettevano tempo ad arrivare nei paeselli, e poi nel '72 ascoltavo lo zecchino d'oro felino – 44 gatti, volevo un gatto nero).

D’accordo, lo so che l’assolo di batteria su the mule è una buzzurrata insopportabile, che i duetti voce-chitarra di Gillan/Blackmore sono ridicoli e che i testi dei quali rimpiangevamo l’assenza sono realmente dimenticabili, ma trent’anni fa quel becero riffettone di smoke on the water ci sembrava capace di scardinare le montagne. Componente secondaria, ma non troppo, erano le leggende che circondavano le rockstar. Oggi me le sono dimenticate quasi tutte, ma spremendo i dodici neuroni che mi sono restati mi sovviene che taluni sostenevano che Paice era stato ricoverato svariate volte in manicomio, altri assicuravano che smoke on the water era stata composta da Blackmore ispirato da una sigaretta buttata nel cesso durante un'evacuazione e la più fantastica era quella che se si ascoltava con attenzione durante child in time si poteva sentire lo sparo di un ragazzo giapponese suicidatosi live. Siccome l’unica cosa che raramente qualche sorella o fratello maggiore comprava era ciao2001, l’informazione era vicina allo zero e quindi ci si inventava di tutto, e più si inventava più la leggenda cresceva e più il tutto diventava affascinante e potente. Chi “sapeva” faceva parte degli iniziati, chi “non sapeva” apparteneva ad una razza leggermente inferiore.

Non era solo un oggetto materiale, ma la sua materialità era segno del tempo che attraversava e trasformava, tempi di cose che prima si toccavano e poi si ascoltavano; un’era industriale e concreta, fatta di sufficienti beni primarî e scarse merci voluttuarie. Gli acquisti erano rari e i microsolchi venivano consumati incessantemente da malridotte puntine in ascolti ossessivi e ripetuti per anni, in pratica fino alla completa memorizzazione – nota per nota – di tutti i nostri 33 giri.

E invece, questi tiepidi e insignificanti giorni hanno realizzato il nostro sogno di gioventù, qualsiasi tipo di musica è disponibile ed è praticamente gratis. Basta che qualcuno ti presta un pc collegato ad internet e puoi scaricare qualunque cosa, e se ti passi i file su un dvd quanti minuti di musica ci andranno? Mah, quanta se ne può umanamente sentire in un anno, credo. E ho detto sentire, non ascoltare. Per ascoltarla non ne bastano dieci.

Un mp3 non pesa 180 grammi né 18, non pesa, e questa cosa, ve lo confesso, mi fa un tantino ribrezzo. Ma aldilà delle personali idiosincrasie, stavamo al sogno di gioventù. All’epoca del diy (id est: fattello stesso tu, ca comme t’o ffaje tu non t’’o ffa’ nisciuno) eravamo convinti che mezzi alla portata di tutti nel produrre e nel fruire comunicazione e cultura, anzi, controcultura, avrebbero portato pensiero creatività e sovversione ovunque.

Mah. Oggi grazie allo sfruttamento all’osso di manodopera asiatica chiunque può comprarsi attrezzi digitali di seconda mano e far circolare la sua musica in giro per il mondo. Il risultato di questa esplosione di creatività e sovversione è che se prima uscivano, che ne so, cinquemila lp all’anno e cinquanta erano roba veramente buona, oggi si può accedere liberamente a miliardi di gigabyte di musica che fanno al 999‰ veramente schifo. L’uno per mille che resta è talmente sepolto vivo da quella marea di munnezza che non fa meraviglia che quando a un ragazzino non completamente ottenebrato gli fai ascoltare axis bold as love quello resta folgorato. A quasi 40 anni suona molto più nuovo di tutti sti white stripes e rocchettari riciclatori assortiti. Vabbe’, basta lagne, a che punto siamo?

Siamo al punto in cui la musica la possiamo fare, la possiamo registrare, la possiamo diffondere gratis a tutto il mondo. Ed ecco quindi milioni di nuovi punk digitali a mettere tantissime e bellissime cose sui loro siti pieni di contenuti pregnanti e belligeranti? Einzomma, mica tanto. Pidocchiosetti i digipank…, sono veramente pochi quelli che rendono disponibili la loro musica nel modo più diretto, gli altri in fondo in fondo sperano sempre che qualcuno si compri il loro cd a quindici euro.

Uno che l’ha fatto,  – beninteso, solo con un album – l’ho trovato, e sta qua:

www.themechanicsofdestruction.org

Il giovanotto si chiama Matthew Herbert ed è quello che si chiama oggi un dj. Questa è un’altra modernità terminologica insopportabile. Ai miei tempi il disc jockey era uno che lo chiamavano in discoteca o alle feste private, si portava una cassa di 45 e 33 giri che cercava di occultare agli sguardi indiscreti per evitare che altri aspiranti dj glieli copiassero, sapeva più o meno usare un mixer e due piatti e ne ricavava qualche soldo e celebrità tra fanciulli e, soprattutto, fanciulle. Il dj era uno che metteva i dischi. Poi sono arrivati quelli che ci mettevano le mani sopra, massacravano le puntine e facevano girare i piatti al contrario e non s’è capito più niente. Adesso chiamano dj gente che fa i dischi, cioè quelli che al paese mio si chiamerebbero musicisti. Quindi Herbert, oltre a essere un dj, è un musicista che fa musica usando nomi diversi come Wishmountain, Dr Rockit e Radioboy. E, strano a dirsi, è pure dotato di un cervello.

Proprio come Radioboy nel 2001 ha fatto uscire un album chiamato The Mechanics of Destruction che è un piccolo trattato di musica elettronico-materiale nel quale si destreggia con suoni e rumori estratti dai prodotti oggetto della sua critica.

The mechanics è stato anche una performance live di musica e critica sociale con suoni e rumori estratti dalla distruzione di lattine di Coca Cola, pacchetti di sigarette, televisori, etc. I titoli dei pezzi riguardano al tempo stesso la fonte dei suoni e dei bersagli principali, dunque il primo pezzo si chiama McDonalds e la fonte del suono è un Big Mac, il terzo Rupert Murdoch fatto utilizzando il giornale The Sun, il sesto Marlboro and Bacardi usando sigarette e bottiglie e così via. La spiegazione sulla scelta dei prodotti e sugli intenti di Herbert la trovate sempre sul sito, del quale mi limito a tradurre poche righe.

“Dato che la musica è l’organizzazione del rumore, la selezione e la strutturazione di tale rumore diviene una metafora dell’organizzazione della società. Se, come ho fatto io all’inizio, state semplicemente campionando i rumori prodotti da ciò che avete a disposizione in cucina è abbastanza chiaro che non avete niente di meglio di cui preoccuparvi. Se state campionando il rumore di qualcuno che sta sganciando delle cluster bomb su di voi, la selezione è parte del messaggio. Per questo, mentre la mia immaginazione si metteva in sintonia con la mia visione del mondo, aiutata non poco da scrittori come John Cage e Jaques Attali, la musica su “The Mechanics of Destruction” è diventata il mio forum.

Ho anche tratto grande piacere dal consumare questi prodotti onnipotenti in modi per i quali non erano stati progettati. Non ho bevuto la Coca, guardato la TV o mangiato il Big Mac. In parte poi, è una scelta di recuperare questi prodotti che hanno riempito le discariche del mondo con plastiche non-biodegradabili e lo stomaco della gente con cibo insalubre. È anche un viaggio dei rifiuti, trasformando merda in musica, il temporaneo in permanente, e l’identico in unico. Se poi la musica vi piaccia o no, questo è un problema totalmente diverso…”.

So che con premesse del genere (in particolare: critica sociale + gratuità della musica) la prima cosa che uno pensa è che si tratterà di una porcheria inaudibile. La sorpresa sta proprio qui, The Mechanics contiene musica tutt’altro che scontata, una reale sperimentazione che associa la memoria della generazione industrial inglese dei primi anni 80 con la ritmica sintetica degli ultimi vent’anni, inevitabile per uno che, anche se con una formazione da “vero” musicista, resta pur sempre un discotecaro autore di oltre cento remix. Niente di estremo ma anche niente di banale, forse non cambierà la vostra vita ma è senz’altro degno di qualche ascolto. Per scaricarvi l’album l’indirizzo è:

http://www.tigersushi.com/site/frameset.jsp?page=Rcd.jsp&RcdId=6833

È in ogni caso suono della modernità, di musica senza peso, di questi tempi nei quali non si sa quanto costa un album (0, 2.5, 6, 10, 18, 25 euro?) e quindi non si può sapere quante ore di musica guadagnano i metalmeccanici. Che, chissà come mai, cambiato millennio continuano a fare un lavoro di merda.

Giuseppe Aiello

(originariamente pubblicato su A'rraggia

Questa voce è stata pubblicata in 4 - Musica (e rivoluzione?). Contrassegna il permalink.