You have won!

Venceremos, venceremos
mil cadenas habrá que romper
venceremos, venceremos
la miseria sabremos vencer!
[1]

Tutta colpa degli anni ’70? Ma sì, furono anni lunghi e larghi, possiamo darla la colpa a loro, nessuno se ne avrà a male. Il desiderio di cambiamento era anche voglia di riscatto da una condizione di miseria – materiale o meno, di una trasformazione globale che facesse scomparire quel mondo affollato di fascisti ridipinti di biancofiore, di lavori indegnamente ripetitivi e salari che imponevano ad ogni finire del mese l’accorto conteggio della lira. Quel mondo insopportabile sarebbe stato sostituito – si auspicava – da panorami ecocompatibili con annessi bambini sorridenti, operai rudi ma soddisfatti, lavoratrici autodeterminate e materne, tutti sereni e intenti all’edificazione del nuovo ordine. A illuminare il tutto il sol dell’avvenire, grazie. La realizzazione di questo grazioso quadretto, retaggio tanto della peste cristiana quanto dei vaneggiamenti dell’immaterialismo storico, richiedeva una dura battaglia – e una vittoria completa. Venceremos, venceremos – cantavano i bravi musicanti cileni scampati per sorte alla mala fine del loro collega Victor Jara, e noi lì, con il pugno alzato, sotto il palco. Vincere non abbiamo vinto, solo che non ho capito bene cosa avremmo perso.

 
 

Noi buttavamo tutto in aria e c’era un senso di vittoria
come se tenesse conto del coraggio la storia
[2]

So però quello che ci è toccato dopo, e chi se lo scorda. Craxi, De Mita e Agnelli über alles, non trascurando i primi sonori ragli di Berlusconi. Il popolo onirico di cui sopra, avendo diligentemente disoccupato le strade dei sogni, aveva ormai altri impegni, qualcuno in cella, qualcuno dall’analista, i più dal pusher o a trovarsi un lavoro serio o un posticino da scagnozzo presso qualche potentucolo del Psi. Quasi tutti quelli che erano d’avanzo perché troppo giovani o perché cerebralmente irriducibili risolsero la percezione della totale inutilizzabilità della paccottiglia militante importando un’identità da sfigati sì, ma almeno un minimo seducenti. Dark, punk, catastrofisti sparsi, anonimi semialcolisti, generazione di sconvolti… e se tutto ciò vi procura una certa malinconia, pensateci bene: se i modelli tra loro alternativi erano Tom Waits e De Michelis, voi chi avreste scelto?
Certo, per richiamare la popolazione all’energico agire ci vuole altro, ci voleva un’idea nuova, o almeno una discreta rifrittura di quelle vecchie, e che in aggiunta fosse ottimista, piena di prospettive e di speranze. Quando arrivò, senza che alcuno lo avesse previsto, dalle montagne messicane, la spappolata galassia rivoluzionaria ebbe un fremito e il passamontagna, in pochi mesi da obsoleto e tetro attrezzo di tempi per sempre andati ritornò capo d’alta moda.

La riduzione di un accadimento complesso all’enunciazione del prevalere di una possibilità tra due previste è una gran comodità: consente di ordinare gli eventi, di analizzarli in base a quell’ordine, di persuadersi dell’oggettività del criterio adottato (in base al sottinteso dogma imperante per il quale i numeri anche se mentono dicono pursempre qualcosa di vero). Permette, in pratica, di assimilare l’esistente ad una finale di coppa dove c’è quello che ha finto di stare bene per giocare e dopo venti minuti capisce che ha fatto una cazzata ma è troppo orgoglioso per chiedere la sostituzione, il fuoriclasse che pensa a quello che ha dovuto regalare al fisco e che forse sarebbe meglio farsi la residenza in Lichtenstein ma poi non ha capito se così diventa extracomunitario o no, il terzino (avversario) al quale il mister lo ha affidato che chi sa perché si galvanizza e per 90 minuti si concentra come un cane da presa sulle caviglie del funambolo, la mezzala molestata dal sospetto che sua moglie nutra interessi poco leciti nei confronti del portiere e… niente da fare. Tutto l’intreccio di un’ora e mezza di queste vite non è degno di attenzione e tantomeno di memoria, ciò che importa e resta è: 1 o 2. Uno vince – uno perde, manco il limbo di una x.

Siamo trecentomila, abbiamo vinto noi [3]

Ad ogni beccata che gli infliggeva il falco, il pappagallo gridava "vittoria"; ne arrivava un'altra, "vittoria"; gli troncava una zampa, "vittoria"; gli staccava un'ala, "vittoria"; e in questo modo fu smembrato cantando sempre "vittoria" [4]

Ma come sono state tradotte le idee dell’insurrezione (piccola, ma insurrezione) del Chiapas nel prospero belpaese? L’ironia di Marcos è divenuta un ghigno rabbioso, l’interrogarsi nel cammino è diventato cammina e poi forse puoi parlare, l’importanza del congiungere all’azione la sua comunicazione scivola in un grottesco tutto il potere allo spettacolo. E infine, la convinzione che il cambiamento sia possibile e a portata di mano si tramuta in un rituale dove conta solo ed esclusivamente il poter dire abbiamo vinto. Con ogni mezzo necessario: contrattazione con le questure, parlamentari attaccati ai telefonini, tappeti di velluto ai giornalisti, volantini con il regolamento della manifestazione, servizi d’ordine e cazzotti in faccia per chiunque prenda iniziative non concordate, acrobatici sofismi per passare da tostoni senza paura ma, al tempo stesso, anche da semi-nonviolenti; tentativo di monopolio su tutto quello che si possa muovere in giro e di conseguenza odio feroce per chiunque critichi queste modalità.[5] Per gli scettici cito alcune righe di un comunicato, diffuso il 17.06.2000 da una tuta bianca bolognese, che chiariscono bene il punto al quale si era arrivati: “La mattina del 14 giugno a Bologna, ho assistito all’allestimento di un esemplare teatro bellico e ho partecipato a una straordinaria vittoria comunicativa, quindi par exellance politica. Per fortuna mi sono ritrovato dentro un teatro. Per fortuna sono stato parte di una coreografia. Per fortuna ho potuto contare su una regia sapiente. […] Senza l’incredibile successo mediatico delle 13.00 ci saremmo scordati di entrare in via Ugo Bassi il pomeriggio.”
Un pastore che fornisce una sapiente regia per un teatro di pecore, che possano tutte belare all’unisono – abbiamo vinto! Questa ideologia ovina nei mesi prima del luglio genovese sembra dilagare irresistibilmente, ma assieme cresce, in cento piccoli episodi, l’astio di chi non vuole essere gestito e mi pare che anche di questo si debba tener conto per spiegarsi cosa è successo a Genova. Anche di questo, nel senso che la critica materiale esercitata dai vetrinisti anticapitalisti è stata ed è, a mio avviso, pure un condivisibilissimo rifiuto del potere politico “alternativo” e dei suoi onnipresenti capetti, ma il fatto che sia stata una critica efficace non dovrebbe indurre ad un’identica semplificazione, cioè ad asserire che un gesto chiaro e non mediato comporti una qualche vittoria.
Una manifestazione, lo dice il nome, è di per sé atto simbolico e, nel migliore dei casi, comunicativo. Durante il suo svolgimento ognuno sceglie che cosa vuole comunicare, si sceglie un ruolo con l’aspettativa che la propria rappresentazione venga amplificata dagli sguardi altrui. Se non fosse così il 20 luglio ci sarebbe stata gente che alzava le mani e gridava nonviolenza-nonviolenza in piazza a Varazze, servizi d’ordine incordonati e disciplinati a pattugliare le vie di Terlizzi e vetrinisti all’opera presso la sede centrale del monte dei paschi di Milazzo. Invece no, tutti a Genova. Il fatto che io ritenga poco interessante impiegare le proprie energie in tali rappresentazioni è totalmente irrilevante (per me medesimo, figurarsi per voi), ma credo che sia invece utile sottolineare che i percorsi di liberazione possono sì passare per le grosse manifestazioni, ma solo se legati al quotidiano. È quello che non perdona, è lì che non c’è né vittoria né sconfitta, solo la vita vissuta, non la sua rappresentazione. Stare a rincorrere nei quattro cantoni i potenti – tutti a Seattle! Tutti a Praga! Tutti a Davos! Tutti a Napoli! Tutti a Genova! Tutti a … Doha!? Ma vaffanculo, non sapete giocare… – e pensare che la pianificazione della demolizione di 5 o 500 vetrine ci faccia vincere un mondo nuovo è più di un’ingenuità, è un inizio di suicidio collettivo. Chi pretende di liofilizzare il cambiamento in una militanza disciplinata oppure in un giorno di gloria incendiaria, sta solo riproponendo per l’ennesima volta l’assillante canzoncina elettronica che bercia You have won! You have won! – con la quale sai benissimo che non hai vinto niente, è solo un altro che vuole venderti qualche schifezza di cui non hai bisogno alcuno.

Giuseppe Aiello, novembre 2001
(pubblicato in AA.VV., OGM, Piccolo dizionario degli orrori – Genova luglio 2001, Zero in Condotta, 2002)

Note:

1 – Inti Illimani, Venceremos, 1973.
2 – Giorgio Gaber, I reduci, 1976.
3 – Vittorio Agnoletto, 20.07.2001.
4 – Josè Joaquin Fernandez de Lizardi, La Vittoria del Pappagallo, 1823, citato da Marcos nel comunicato del 14.02.1997.
5 – Tale odio ammantato di intellettualismo di quarta mano è documentato nell’opuscolo anonimo Nemici dello stato, che è disponibile in rete, per chi ha lo stomaco di leggerlo, su alcuni siti legati all’area delle tute bianche
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