Malatesta e il satiro

Nelle brevi note che seguono ho cercato di evidenziare quelli che ritengo dei punti deboli del pensiero malatestiano in merito al rapporto tra la collettività ed alcuni individui che, a causa del loro agire, mettono in pericolo la pacifica convivenza. In parole povere sto parlando della sorte dei delinquenti recidivi dopo la rivoluzione. Non si tratta di un riesame storico, poiché di storici dei movimenti rivoluzionari e dell'anarchismo ve ne sono in discreto numero e ben più qualificati di me, ma di focalizzare una tematica che spesso si mostra insufficientemente definita in alcuni settori del movimento libertario.
Invito a non interpretare quanto segue in termini etici (buon libertario vs. cattivo autoritario), bensì in una prospettiva realistica: se mi pare sufficientemente documentato che presupposti di tipo A hanno sempre portato a conseguenze di tipo B, ritengo altamente probabile che intenti molto simili porteranno a risultati analoghi. Forse era più semplice dire che la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni…
Se qualcuno ritiene che il pensiero di Malatesta vada seguito alla lettera e che criticarlo sia fuori luogo, dovrebbe riflettere sulla possibilità che il movimento libertario non sia un buon posto ove collocarsi. Di icone e profeti illuminati sono ben fornite molte sette, l'anarchismo può e deve farne a meno.
Con ciò non va dimenticato che erano tempi diversi dai nostri quelli che percorse Malatesta, anni nei quali la rivoluzione, l'insurrezione, non erano spettri lontani, ma avvenimenti che potevano concretizzarsi, e di fatto si concretizzavano, da un momento all'altro.
Solo a distrarsi un attimo ci si poteva trovare spiazzati o impreparati.

Corre in certi ambienti la leggenda ch'io sia stato l'organizzatore della "Settimana Rossa" del 1914. Grande onore per me, ma purtroppo non meritato![…]
In Ancona la mattina le truppe erano restate consegnate e non v'era stato nulla di grave. Nel pomeriggio vi fu un comizio nel locale dei repubblicani a Villa Rossa, e dopo che ebbero parlato oratori dei vari partiti e spiegato le ragioni della manifestazione, la folla incominciò ad uscire. Ma alla porta ci era la polizia che intimava di sciogliersi e di ritirarsi, mentre poi cordoni di carabinieri chiudevano tutte le strade per le quali si poteva andar via ed impedivano il passaggio. Ne nacque un conflitto; i carabinieri fecero fuoco ed ammazzarono tre giovani.
Immediatamente i tram cessarono di circolare, tutti i negozi si chiusero e lo sciopero generale si trovò attuato senza che ci fosse bisogno di deliberarlo e proclamarlo. L'indomani ed i giorni susseguenti Ancona si trovò in istato d'insurrezione potenziale. Dei negozi d'armi furono saccheggiati, delle partite di grano furono requisite, una specie di organizzazione per provvedere ai bisogni alimentari della popolazione si andava abbozzando. La città era piena di truppa, navi da guerra si trovavano nel porto, ma l'autorità pur facendo circolare grosse pattuglie, non osava reprimere, evidentemente perché non si sentiva sicura dell'obbedienza dei soldati e dei marinai. Infatti soldati e marinai fraternizzavano con il popolo; […] qua e là degli ufficiali erano sputacchiati e schiaffeggiati in presenza delle loro truppe e i soldati lasciavano fare e spesso incoraggiavano con cenni e con parole. Lo sciopero prendeva ogni giorno più il carattere di insurrezione, e già dei proclami dicevano chiaramente che non si trattava più di sciopero e che bisognava riorganizzare sopra nuove basi la vita cittadina.
(1)

 
 
 
Per una corretta valutazione di quanto scrive Malatesta si deve tenere conto della diffusa certezza di una rivoluzione imminente (per quanto sia una certezza poco familiare ai nostri giorni). La sua mente sembra incessantemente correre alla prossima insurrezione, più che a quella passata, e a come si dovrà agire più efficacemente la volta successiva. Di qui lo sforzo di prevedere le azioni più urgenti e indispensabili al consolidamento della rivoluzione e ad impedire il ritorno della reazione.
Malatesta chiarì molte volte quale doveva essere il compito degli anarchici al momento dell'insurrezione, sempre in maniera simile, usando a volte parole ed espressioni un po' diverse, ma nessuna di queste formulazioni contraddice le altre. Delle tante se ne potrebbe citare una a caso, ma quella che preferisco si trova in un articolo di risposta al repubblicano Ansaldi dell'aprile del '22, dove scrive:

Debellate le autorità monarchiche, distrutti i corpi di polizia, sciolto l'esercito, noi non riconosceremmo nessun nuovo governo, specialmente poi se fosse un governo centrale con pretesa di dirigere e regolare il movimento. Spingeremmo i lavoratori a prendere possesso totale della terra, delle fabbriche, delle ferrovie, delle navi, insomma di tutti i mezzi di produzione, ad organizzare subito la nuova produzione, abbandonando per sempre i lavori inutili e dannosi e provvisoriamente quelli di lusso, concentrando il massimo delle forze nella produzione dei generi alimentari e degli altri oggetti di prima necessità. Spingeremmo alla raccolta ed all'economia di tutti i prodotti esistenti ed all'organizzazione del consumo locale e dello scambio tra località vicine e lontane, conformemente alle esigenze della giustizia ed alle necessità e possibilità del momento. Cureremmo l'occupazione delle case vuote o poco abitate fatta in modo che nessuno resti senza abitazione e ciascuno abbia un alloggio corrispondente ai locali disponibili in rapporto alla popolazione. Ci affretteremmo a distruggere banche, titoli di proprietà e tutto ciò che rappresenta e garantisce la potenza dello Stato ed il privilegio capitalista; e cercheremmo di creare uno stato di cose che renderebbe impossibile la ricostituzione della società borghese.(2)

Il riassunto del che fare malatestiano è impeccabile e proprio per questo diviene inevitabile osservare che mentre si parla esplicitamente di distruggere le banche – questo è il motivo della scelta di questa citazione – si omette di esplicitare quale sarà il destino delle carceri e di coloro che vi sono rinchiusi. Questa timidezza nell'affrontare tale argomento non è presente solo in questo scritto ma si nota in tutti quelli che ho avuto tra le mani. Si può supporre che si trattava di un argomento che Malatesta non affrontava di buon grado – la mia personale opinione è che giocasse un certo ruolo il timore di prestare il fianco agli attacchi degli avversari del movimento anarchico che avrebbero certo strillato contro il pericolo dei delinquenti in libertà.
A conforto di questa interpretazione riporto un brano di una lettera privata scritta ad Armando Borghi pochi mesi prima di morire:

…mi pare di poter dire che gli anarchici e i sindacalisti spagnoli non seppero profittare dell'occasione che offriva loro la rivoluzione del 14 aprile con il susseguente entusiasmo popolare. […] Bisognava armarsi, esigere la dissoluzione della Guardia Civica e degli altri corpi di polizia, obbligare i padroni (se per il momento non si poteva abolirli) a dar lavoro a tutti i disoccupati, ecc. In ogni modo disertare le urne e restare in posizione di aperta ostilità contro il governo di Madrid e quello della Generalidad di Catalogna. E come sarebbe stato bello, almeno quale atto simbolico, la demolizione del Castello di Montjuich… (3)

Come si vede il pensiero più forte è rivolto all'azione anche simbolicamente più importante, quella di distruggere il famigerato carcere e luogo di tortura dove, tra tanti altri, era stato assassinato Francisco Ferrer. Che nessuno si convinca dunque (è meglio precisarlo, poiché non è preferibile al cieco devoto l'iconoclasta coatto) che Malatesta non volesse con grande urgenza distruggere le carceri, solo che forse riteneva che discutere e polemizzare intorno a tale idea fosse pratica poco utile, se non controproducente, per la propaganda rivoluzionaria.
Tuttavia questa non è che una congettura, mentre esiste un'altra motivazione, centrale ed esplicitamente dichiarata, che porta a relegare ad un ruolo di secondo piano le istituzioni repressive. Queste istituzioni, carceri comprese, sono in qualche modo, per Malatesta, un sottoprodotto dell'organizzazione della produzione e della distribuzione delle risorse.


Distruggere le istituzioni, i meccanismi, le organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se si tratta di istituzioni repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità della vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistratura, cose potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono altre le istituzioni e le organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare la vita all'umanità; e queste istituzioni non si possono utilmente distruggere se non sostituendole con qualcosa di meglio.
Lo scambio delle materie prime e dei prodotti, la distribuzione delle sostanze alimentari, le ferrovie, le poste e tutti i servizi pubblici esercitati dallo Stato o dai privati, sono stati organizzati in modo da servire interessi monopolistici e capitalistici, ma rispondono ad interessi reali della popolazione. Non possiamo disorganizzarli […] se non riorganizzandoli in modo migliore.(4)

Come si può comprendere è necessario fare almeno un brevissimo cenno sul lungo dibattito che contrappose "demolitori" e "ricostruttori", e che continua sporadicamente a riaffiorare all'interno del movimento anarchico, perché è proprio in seguito a tale dibattito che le posizioni vengono specificate. Per evidenziare quello che era, secondo Malatesta, il nucleo della discordia, utilizziamo delle righe di Luigi Galleani che lo stesso Malatesta stralcia a titolo esemplificativo in un articolo del 1926. (5)
Scrive Galleani:

Il nostro compito è più modesto ed anche più perentorio: dobbiamo lasciare ad essi [ai "nostri nepoti"] il terreno sgombro dalle fosche ruine, dalle turpi galere, dai privilegi esosi, dai monopoli rapaci, dagli eunuchi rispetti umani, dai convenzionalismi bugiardi, dai pregiudizi avvelenati tra cui ci aggiriamo, povere ombre in pena; dobbiamo lasciare ad essi sgombra la terra dalle chiese, dalle caserme, dai tribunali, dai lupanari e soprattutto dall'ignoranza e dalla paura che li custodiscono assai più fedelmente che non le sanzioni del codice e i gendarmi.

Malatesta, come è ovvio, non è affatto d'accordo, anzi definisce "nefasta" l'idea che compito degli anarchici sia solo quello di demolire. Anche se Malatesta e Galleani si riconoscevano reciprocamente come compagni e fratelli la differenza su questo punto non è da poco. Per il "ricostruttore" Malatesta il carcere è un'istituzione "parassitaria", per il "demolitore" Galleani è una dei primi oggetti della pulizia di cui il mondo necessiterebbe per essere trasmesso in migliori condizioni ai nostri nepoti.
La prospettiva dei demolitori è dunque rilevante perché sono proprio loro che, con le loro critiche, inducono Malatesta ad abbandonare quella sorta di reticenza alla quale si faceva riferimento e ad esplicitare in modo inequivocabile le proprie posizioni  riguardo i comportamenti irriducibilmente asociali.
Non che Malatesta non si fosse reso conto in precedenza dell'importanza del tema della delinquenza, tutt'altro, e già in un opuscolo di propaganda del 1883, si esprime in questo modo:

Prima di tutto quando non vi sarà più miseria e ignoranza tutti questi malviventi non vi saranno più. Ma poi, ancorché ve ne fosse qualcuno, vi è bisogno per questo di tenere un governo ed una polizia? Non saremo buoni da noi a mettere a dovere chi non rispetta gli altri? Soltanto, non li strazieremo, come si fa adesso dei rei e degli innocenti; ma li metteremo in posizione di non poter nuocere, e faremo di tutto per riportarli sulla dritta via. (6)

Come si vede il discorso è affrontato restando tutto sommato sul vago, non ci è dato di sapere che cosa significa con precisione "metteremo in posizione di non poter nuocere", né quali sarebbero le modalità e gli strumenti.
Ma quando successivamente le obiezioni si fanno precise e dirette Malatesta non si tira indietro. Diversi anarchici tra i quali Salvatore Carrone, Benigno Bianchi, Enzo Martucci, esprimono pubblicamente le loro perplessità e le risposte ottenute sono del tutto coerenti tra loro e non permettono alcuna ambiguità nelle interpretazioni.
Per inciso voglio far notare che la disponibilità a discutere e pubblicare scritti con opinioni assai diverse dalle proprie – anche quando si trattava delle invettive del fremente e bellicoso compaesano Martucci, di quasi 50 anni più giovane di Malatesta – dovrebbe far meditare chi oggi si riconosce in un movimento anarchico dove la tecnica comunicativa più diffusa è quella di ignorare le critiche oppure di rispondervi appellando il proprio (mancato) interlocutore come idiota, infame e altre delizie d'ogni sorta.
Ma torniamo a Malatesta, che di fronte alle accuse di autoritarismo mossegli da Martucci, così replica:

Che cos'è il delinquente?
Per noi, che vogliamo eguale libertà per tutti, è delinquente chi in un modo qualsiasi viola la libertà degli altri, e saremmo delinquenti noi, come è delinquente il governo ed il fascismo, se avessimo i propositi autoritari che Martucci ci attribuisce. Dire che gli atti antisociali di cui noi parliamo sono “le trasgressioni e ribellioni che l'individuo compie contro le leggi stabilite e imposte dalla collettività” è un voler giocare d'equivoco. Disgraziatamente vi sono degli individui che non sanno rispettare la libertà altrui e finché vi saranno bisognerà difenderci da loro. Martucci, spero, non vorrà tirar fuori i sacri diritti dell'individuo per reclamare la libertà di fare come gli pare a favore del prepotente che bastona ed accoltella chi non gli ubbidisce. O del bruto che stupra e sgozza le bimbe che incontra per via. Dunque? Bisogna impedirglielo. Questa necessaria difesa contro coloro che violano non “l'ordine sociale”, ma i più fondamentali sentimenti che fanno sì che l'uomo sia un uomo e non un'orribile bestia, è uno dei pretesti coi quali i governi giustificano la loro esistenza.
Bisogna eliminare tutte le cause sociali del delitto, bisogna educare gli uomini a sentimenti di fraternità e di rispetto reciproco, bisogna cercare, come diceva Fourier, i surrogati utili del delitto; ma se vi resteranno dei delinquenti e finché ve ne resteranno o la gente troverà il modo e l'energia per difendersi direttamente contro di loro o ricomparirà la polizia, la magistratura e quindi il governo.
(7)

Dopo un mese ritorna sull'argomento, specificando:

Si può temere, ed a giusta ragione, che questa necessaria difesa contro la delinquenza, possa essere l'origine ed il pretesto di un nuovo sistema di oppressione e di privilegio. È missione degli anarchici vegliare a che ciò non avvenga. Cercando di scoprire le cause di ogni delitto e sforzandosi di eliminarle, impedendo che della gente trovi vantaggio personale nel dedicarsi alla repressione del delitto, lasciando che alla difesa provvedano da loro stessi i gruppi direttamente interessati, abituandosi a considerare i delinquenti come fratelli deviati, come malati da curare con affetto, come si farebbe di un qualsiasi idrofobo o pazzo pericoloso, si potrà conciliare l'intera libertà di tutti con la difesa contro coloro che questa libertà offendono in modo evidente e realmente pericoloso. (8)

Nel caso in cui qualche lettore volesse immaginarmi all'opera mentre, con sterminata e malevola pazienza, cerco ed infine recupero l'unico scritto in cui Malatesta, in un momento di appannamento, si esprime in questi termini, voglio rassicurarlo: Malatesta la pensava esattamente così, e ne possiamo avere conferma da un altro passo, posteriore di qualche anno:

Bisogna abolire le galere, questi tetri luoghi di pena e di corruzione dove, mentre i detenuti gemono, i guardiani si fanno il cuore duro e diventano peggiori dei guardati: d'accordo. Ma quando si scopre un satiro che stupra e strazia dei corpicini di povere bimbe bisogna pur provvedere a metterlo in istato di non poter nuocere, se non si vuole ch'egli faccia altre vittime e finisca poi coll'essere linciato dalla folla. Ci penseranno i futuri? No, dobbiamo pensarci noi, perché questi fatti avvengono oggi. Nel futuro, speriamo, i progressi della scienza ed il mutato ambiente sociale avranno rese impossibili quelle mostruosità. (9)

e ancora, in seguito alla risposta di Carrone:

Il Carrone sembra propendere per il linciaggio. È una soluzione primitiva, selvaggia, che ripugna alla mentalità moderna, ma è una soluzione; e varrebbe sempre meglio che la beata fiducia che quelle cose, fatta la rivoluzione, non avverranno più, o il magro espediente di rimandare il problema ai nepoti. Senonché avverrebbe come è sempre avvenuto in casi simili […] che la folla irritata, commossa, non sapendo con chi prendersela, si scagli chi sa su quanti poveri diavoli indicati al suo furore da donne rese isteriche dallo sdegno e dalla paura. E allora la gente calma invocherebbe l'intervento della polizia, di una qualsiasi polizia professionale…[…].
Che cosa bisognerebbe dunque fare?
Persuadere la gente che la sicurezza pubblica, la difesa dell'incolumità e della libertà di ciascuno deve essere affidata a tutti; che tutti debbono vigilare, che tutti debbono mettere all'indice il prepotente ed intervenire in difesa del debole, che i compaesani, i vicini, i compagni di lavoro debbono all'occorrenza farsi giudici e, nei casi estremi, come quello in discussione, affidare chi è riconosciuto colpevole alla custodia ed alla cura di un manicomio, aperto sempre al controllo del pubblico. Ed in ogni caso evitare che la difesa contro i delinquenti diventi una professione e serva di pretesto alla costituzione di tribunali permanenti e di corpi armati, che diventerebbero presto strumenti di tirannide.
Ma insomma, questa della delinquenza non è che una questione secondaria, per quanto sia la prima che si affaccia alla mente di coloro a cui si parla per la prima volta dell'inutilità e della nocuità del governo.
Nessuno pretenderà che qualche satiro o qualche prepotente sanguinario possano arrestare il corso della rivoluzione!
(10)

Pur non volendo attribuire a Malatesta una progenie che con tutta probabilità avrebbe disconosciuto, mi sembra che posizioni del genere possano facilmente scivolare verso un rieducazionismo criptolegalista che spesso si è visto serpeggiare nel movimento anarchico. Per evitare di fare esempi troppo vicini a noi, che di certo sarebbero interpretati come provocazione e offesa grave, ma per poter chiarire quali sono i rischi di un simile approccio, voglio menzionare uno scritto di Georges Fontenis nel quale il timore del comportamento asociale fa già balenare l'immagine di carceri restie a crollare anche dopo la rivoluzione:

Il problema della delinquenza durante il periodo rivoluzionario può essere collegato con quello della difesa della Rivoluzione. La scomparsa della legge borghese e del sistema giudiziario e penitenziario della società di classe non dovrebbe farci dimenticare che restano delle persone asociali (per quanto poche se confrontate con lo spaventoso numero di prigionieri nella società borghese, prodotti principalmente dalle condizioni nelle quali vivono – ingiustizia sociale, povertà e sfruttamento) e che esiste il problema di alcuni borghesi che non possono venire in alcun modo assimilati. Le agenzie del potere popolare diretto che abbiamo definito in precedenza sono tenute a prevenire che questi possano arrecare danno.
Con un assassino, un pericoloso maniaco o un sabotatore non si può invocare il pretesto della libertà e lasciare che se ne vadano a commettere nuovamente lo stesso crimine. Ma il fatto che i servizi di sicurezza popolari li mettano in condizione di non poter nuocere non ha niente in comune con il degradante sistema carcerario della società di classe. Gli individui privati della libertà dovrebbero essere considerati più da un punto di vista medico che giudiziario fino a che non possano essere ricondotti con sicurezza nella società.
(11)

Lo slittamento in senso socialista è palese ma, come si può vedere, gli argomenti sono sostanzialmente gli stessi usati da Malatesta: esigenza di una società libera sarà quella di difendersi dai pochi elementi asociali, che siano delinquenti controrivoluzionari o pericolosi maniaci, non attraverso una spietata repressione ma per mezzo di un trattamento rieducativo di impronta medica.

La critica che va portata in maniera molto netta a queste posizioni può essere brevemente articolata in alcuni punti.

1 – La "custodia e cura di un manicomio" sono in ogni caso una detenzione. Nel probabile caso in cui il satiro o il sabotatore non accetteranno di essere custoditi e curati bisognerà farlo nonostante la loro volontà e dunque sarà d'obbligo elaborare tutta una serie di tecniche rivolte ad evitarne la fuga e quindi il nuovo pericolo che possono costituire per gli altri.
L'incompatibilità della detenzione con un mondo libero dal potere politico (12) non è, si badi bene, di ordine etico. Non è che siccome sono buono e libertario/liberato, moralmente superiore, di conseguenza non potrei tenere nessuno rinchiuso da qualche parte. È che anche se c'è una sola persona che la collettività (13) decide dover essere rinchiusa, ci dovrà essere qualche appartenente a questa collettività che si occuperà per parte della sua giornata di evitarne la fuga, assicurarsi che sia in sufficiente salute fisica, procurarle cibo, vestiario, decidere quali sono le persone che può vedere e con chi può essere in contatto. Il nodo insolubile non sta dunque tanto nella persona detenuta, ma nel suo controllore, se non si vuole chiamarlo carceriere (14). Il meccanismo del controllo non è tecnica che si possa rinchiudere tra possenti muraglioni, è un modo di organizzare la società, e se viene applicato in un punto è destinato ad espandersi metastaticamente a tutte le relazioni umane. Non ci si può illudere che questa struttura contenitiva "aperta al controllo del pubblico" possa essere compatibile con la libertà. Ad esempio, giusto per evitare le tentazioni di discorsi nebulosi, un sabotatore "custodito" potrebbe senz'altro aumentare la sua pericolosità se a contatto con simpatizzanti della sua causa di sabotatore. Dunque i suoi incontri con "non custoditi" andrebbero osservati ed andrebbe verificata l'effettiva innocuità delle persone che desiderano incontrarlo. Come si vede ecco che il controllo, in un attimo, è uscito dalle mura e già sta scorrazzando per strade e campi a prelevare impronte digitali.
 
2 – La centralità della produzione e della distribuzione delle merci è un'idea fuorviante e datata che dovrebbe essere abbandonata con urgenza. A dire il vero è proprio il concetto di centralità – per non parlare delle schematizzazioni struttura/sovrastruttura – che appare ormai utilizzabile solo all'interno di ideologie autoritarie. Il dominio non ha centro (come lo Stato non ha cuore), ma si manifesta piuttosto come un reticolo disciplinare le cui maglie cambiano forma, dimensione e reciproche connessioni in una dinamica di interdipendenza all'interno di una società che assomiglia sempre meno ad una piramide e sempre più ad una sterminata ameba gommosa che cerca di occupare ogni interstizio lasciato vacante. La scuola, la fabbrica, le rappresentanze politiche di ogni ordine e grado, il penitenziario, la caserma, gli uffici, il manicomio, i tribunali, la famiglia, l'organizzazione del dopolavoro, delle vacanze, del "tempo libero", si specchiano gli uni negli altri all'infinito e lasciare, in tempo di rivoluzione, che solo una di queste istituzioni continui a funzionare significa che la rivoluzione è fallita.

3 – Ancora più in particolare ognuna di queste strutture riconosce e alimenta le altre, anche se si verificano tempi di gloria e di (relativa) disgrazia per ognuna di esse. L'apparente conflitto tra magistratura e classe politica in Italia negli ultimi dieci anni ne è un piccolo, miserabile, ma significativo esempio. Appena c'è un po' di margine d'espansione ogni struttura tende a rosicchiare lo spazio occupato dalle altre, finché la dimensione del suo potere diviene eccessiva per l'equilibrio generale del sistema e comincia ad incontrare una resistenza diffusa.
L'articolazione carceraria sta vivendo un momento di gloria che non accenna a finire: aumentano costantemente i detenuti, aumentano le carceri, aumentano le persone "non libere" ma non proprio in galera (affidamento, domiciliari, centri di accoglienza, etc.). Ma soprattutto si espandono all'esterno della galera tecniche e tecnologie che, create dalla ricerca a fini bellici, nelle prigioni si sono affinate e consolidate, a cominciare dai sistemi di controllo satellitare dei lavoratori dipendenti fino al proliferare di telecamere, puro distillato di panopticon, che contribuiscono alla "sicurezza" delle nostre città.

4 – Il terrore del delinquente, del pericoloso maniaco, il "satiro" come lo chiamava Malatesta (oggi verrebbe detto "pedofilo") è, tra le paure che tiene insieme la società, una delle maggiormente efficaci. Non a caso i media fanno il possibile e l'incredibile per evidenziare o costruire dal nulla la fobia dello stupratore assassino. Sbagliava dunque Malatesta a definirla una "questione secondaria": la sconfitta di questa paura non può essere rimandata se ci si vuole liberare della società disciplinare.

5 – Ma in definitiva, cos'è questo "curare con affetto" che Malatesta desiderava rivolgere a delinquenti e pazzi pericolosi? È un parente stretto della rieducazione, del recupero del soggetto asociale e pericoloso, del reinserimento nel consesso civile: in poche parole uno degli strumenti più efficaci delle moderne organizzazioni del potere politico per legittimare la propria esistenza e per confermare la propria superiorità nei confronti di altre forme di convivenza umana. La democrazia capitalista come il socialismo di stato si dichiarano sempre tolleranti e non vogliono che nessuno resti escluso. In democrazia ciò viene vissuto come un perpetuo dialogo-scontro tra esigenze diverse, i cui estremi sono la posizione intollerante (la destra reazionaria, quella che urla "morte al pedofilo – calci in culo ai bingobongo") e quella supertollerante (di sinistra, gli immigrati hanno i loro diritti e i pedofili sono malati e vanno curati). Su questa plasticità la democrazia capitalista sta basando il suo predominio.
Si può notare una piccola imperfezione: se nella vituperata legge del taglione (e leggi affini) si sa che ad un atto preciso corrisponde una pena altrettanto precisa, quando si entra nella logica del recupero i criteri si fanno molto più sfumati. Quando è che un individuo pericoloso smette di essere pericoloso? Non si sa, ciò va valutato momento per momento, vanno studiati (scientificamente, è ovvio) i suoi gesti, i suoi pensieri, non solo ciò che ha fatto ma soprattutto ciò che potenzialmente potrebbe fare.
Dal processo all'azione si passa al processo all'intenzione.
Si è evitato il carcere e subito compare il manicomio, un manicomio gestito da una santa inquisizione scientifica e progressista che valuterà se la detenzione può avere termine oppure deve proseguire. Anche illimitatamente, perché se non riusciamo a curarti non possiamo certo metterti in libertà, pernicioso come sei (potresti essere).

Voleva dire tutto questo Malatesta? Certo che no, ma di fatto se non si è disposti a criticare a fondo l'intera impostazione rieducazionista i passi che si riusciranno a fare verso l'abolizione della detenzione saranno stentati e miseri, sempre pronti a precipitose ritirate. Non è solo il carcere materiale che va avversato, ma anche tutte le idee che contengono princìpi disciplinari.
Tutto ciò ha un prezzo, ed è da vedere se si è disposti a pagarlo: ci si deve rassegnare al (o gioire del, a scelta) fatto che non esiste una soluzione adatta ad un mondo senza galere. Al problema della libertà esistono un numero indefinito di risposte, forse una per ogni comunità che si è liberata dalle istituzioni, ognuna imperfetta, ognuna preferibile alla camicia di forza totale che ci stanno costruendo attorno.

Giuseppe Aiello (15)
(scritto in occasione del convegno su Errico Malatesta tenuto a Napoli nel dicembre 2003)

Note:
1. Errico Malatesta, Movimenti stroncati, Umanità Nova 147, 28 giugno 1922.
2. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchismo, Umanità Nova 83, 7 aprile 1922.
3. Errico Malatesta, Lettera ad Armando Borghi del 7 marzo 1932, in Scritti scelti, 1954.
4. Errico Malatesta, La rivoluzione in pratica, Umanità Nova 191, 7 ottobre 1922.
5. Errico Malatesta, La fine dell'anarchismo di Luigi Galleani, Pensiero e Volontà 9, 1 giugno 1926. L'articolo in questione e la relativa citazione si riferiscono al volume, intitolato appunto La fine dell'anarchismo?, stampato nel 1925 negli Usa, che raccoglieva alcuni articoli di Galleani già pubblicati nel 1907-1908 su Cronaca Sovversiva.
6. Errico Malatesta, Fra Contadini – Dialogo sull'anarchia, 1883.
7. Errico Malatesta, Individualismo, Umanità Nova 184, 19 agosto 1922.
8. Errico Malatesta, Libertà e delinquenza, Umanità Nova 190, 30 settembre 1922.
9. Errico Malatesta, Demoliamo e poi?, Pensiero e Volontà 10, 16 giugno 1926.
10. Errico Malatesta, E poi?, Pensiero e Volontà, 12, 1 agosto 1926.
11. Georges Fontenis, Manifesto del comunismo libertario, 1953. Il passo è stato tradotto dall'edizione inglese reperibile all'indirizzo web http://flag.blackened.net/daver/anarchism/mlc/index.html
12. Con l'espressione potere politico intendo potere coercitivo sugli individui esercitato in nome e grazie all'autorità di un'entità superiore. A seconda della tipologia di tale entità (dio, interesse della collettività, proletariato, nazione, popolo) le istituzioni acquisiscono diverse denominazioni (teocratiche, democratiche, socialiste, etc.). È approssimativamente inteso come sinonimo di Stato.
13. La stessa idea di una collettività che decide è un argomento che richiederebbe interi volumi, o meglio: intense e prolungate sperimentazioni concrete.
14. E poi… se a casa noi non ci torniamo più, dentro tutta la vita ci sei anche tu. Claudio Lolli, Dalle capre, 1975.
15. Anche se sono l'unico responsabile delle affermazioni contenute in questo articolo, lo stesso è il risultato del confronto con tutte le persone che "fanno" Filiarmonici–per un mondo senza galere ( www.filiarmonici.org ). Tra queste hanno contribuito direttamente (in ordine alfabetico): Alfredo Imbellone, Gaetano Cutisposto, Maria Pezzia, Maria Rosaria D'Oronzo e Paolo Ranieri. Desidero anche ringraziare Stefano Lissia per avermi disposto nell'orecchio la pulce che è riuscita a vincere la mia pigrizia nello scrivere e tutti i compagni, in particolare Alfredo Bonanno e Vincenzo Papa, che al convegno su Malatesta hanno mosso utili critiche alle idee qui esposte.
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