I talebani della crescita

Chissà se esistono davvero, i talebani afgani. Certo gente che si è definita con questo nome ci sarà, e i budda di Bamiyan qualcuno li avrà pure buttati giù, ma chi siano “davvero” questi talebani è arduo dirlo, impossibile da qui. Come se uno di Pechino volesse capire cos’è un cattolico italiano. Da lontano, superficialmente, sembra facile, poi a guardare da vicino si vede che senza l’appoggio degli americani i talebani non avrebbero avuto nessuna possibilità di prendere il potere ― eppure oggi ne sembrano feroci nemici. Chissà, forse andando in Afghanistan e restandoci per un po’ qualcosa in più si potrebbe capire, ma in fondo è anche questa un’illusione, poiché non è che uno viene in Italia, ascolta le ragioni e le motivazioni di un certo numero di eminenti e praticanti cattolici (Ruini, Della Sala, Buttiglione, Zanotelli, Formigoni, Andreotti…) si chiarisce le idee, anzi, se ne va più confuso di prima, soprattutto se desidera investigare sul loro agire. Però il termine ha riscosso una grande popolarità, cosicché oggi talebano va universalmente ad indicare una persona fanatica, intransigente, tendenzialmente aggressiva e sorda a qualsiasi motivazione che non collimi esattamente con il proprio apparato ideologico. Dunque, difficile dire che mai vorranno i talebani afgani, ma in compenso si può sapere cosa vogliono, o almeno cosa esprimono, alcuni nostri talebani.
Il più impressionante  – per l’ossessione che l’ha pervaso durante la campagna elettorale – è stato il capo del partito democratico, Walter Veltroni, il quale si è proposto come candidato numero uno all’ambita carica di gran mullah dei talebani della crescita. Ovviamente proviene dalle file del partito comunista – burocrate della fgci negli anni settanta, poi burocrate del pci negli anni ottanta – e altrettanto ovviamente negli anni novanta ha asserito di non essere mai stato comunista. Uno di cui potersi fidare.
 
 

All’avvicinarsi delle elezioni Veltroni ha asserito con fermezza e persino un certo ardore: “Senza crescita non c’è politica redistributiva e non c’è giustizia sociale.” Niente di speciale, si potrebbe dire. Però questa volta il proclama non era uno tra i tanti contenuti espressi dal programma del partito, ma prendeva la sinistra sembianza di cardine sul quale potrebbe essersi fondato tutto il progetto del pd, unire imprenditori e operai in nome del prodotto interno lordo. Il partito ha dunque candidato al tempo stesso Antonio Boccuzzi, operaio sopravvissuto alla Thyssen Krupp che troverà come compagno di merende in parlamento il fabbricante di lambrette Matteo Colaninno, già presidente dei giovani imprenditori di confindustria.
Un valzerino che non costituisce certamente una novità – siamo tutti nella stessa barca, remare! remare! ― ma l’accanimento sulla crescita è da vero invasato. Crescere, crescere, produrre, svilupparsi. Altri opifici, nuove carrabili a dieci corsie, fiammanti centri commerciali ed eserciti di negri e visi pallidi nelle piane a respirare pesticidi aggratìs e in clandestinità. Fare, operare, edificare. Cosa?
Tutto.
Ad esempio nuove macchine.
Sabato scorso ero al cinema e prima del film c’era una pubblicità che spiegava in modo moderno come sono coglioni quelli che fanno cose rischiose e veloci in macchina e quanto facilmente si ammazzano – loro e chi gli capita tra le gomme. Poi un’altra con pinguini che ripristinavano la calotta glaciale con scorregge surgelanti (gomme da masticare al mentolo) e subito dopo una trentina di secondi di esaltazione della velocità con un’automobile sportiva che sfrecciava su e giù, a occhio e croce perfetta per schiantarsi a duecento all’ora dentro un pulmino pieno di bambini che vanno in gita scolastica.
Ma sono loro che sono dei poveri idioti o pensano che siamo noi dei perfetti imbecilli?
Né l’uno né l’altro. I pubblicitari sanno bene che l’idea di una relazione causa effetto non sta alla base delle nostre azioni se non in minimissima parte. Quindi andiamo contemporaneamente colpevolizzati per la nostra criminale incoscienza nel guidare a velocità eccessive e resi consapevoli del fatto che non c’è niente che ci rappresenti socialmente in modo più efficace di un autoveicolo.
Allo stesso modo i democratici da una parte mettono (velatamente, attraverso i loro cani da guardia onnipresenti nei media) sotto accusa i campani per il comportamento incivile e per l’eccessiva produzione di rifiuti, e dall’altra sostengono che è inutile voler pensare alla giustizia sociale se non c’è crescita. Ma esiste qualche nesso logico tra queste due entità (“giustizia sociale” e “crescita”) ? Da qualsiasi punto di vista si guardi la questione, la risposta è: no. “Giustizia sociale” una volta significava che andrebbe evitato che uno sia proprietario di  duemila appartamenti mentre l’altro viva in una baracca di lamiera, o che ci sia chi lavora 12 ore al giorno e ha difficoltà a pagare le bollette di acqua e luce.
Oggi no, “giustizia sociale” vorrebbe dire che dobbiamo produrre sempre più oggetti, idee, servizi – al 99% inutili o dannosi – e che siano abbastanza anche per chi si trova in fondo alla scala sociale. Immondizia nuova di zecca per tutti, senza scampo – questo il grido di battaglia dei talebani della crescita.
E, se non fosse che le elezioni non contano niente e che le politiche di Berlusconi saranno identiche a quelle di Prodi e Veltroni, ci sarebbe quasi da essere contenti che l’ossessione devastatrice del partito democratico non abbia avuto la meglio. Ma i pupazzetti che siedono in parlamento ballano al suono di una musica che qualcun altro suona, loro prendono i fischi e gli applausi ma nessuno di loro in fondo perde o vince davvero. Chiunque sieda al governo, la colonna sonora è sempre la stessa una marcetta che fa: siamo tutti nella stessa barca, remare! fabbricare! produrre! edificare! costruire! crescere!
E voler scendere dalla barca sarebbe molto scortese, visto che l’opzione non è prevista…

Giuseppe Aiello, aprile 2008

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