A Urupia si lavora troppo?

Una mia personalissima selezione di estratti da documenti pubblici di Urupia diffusi in anni passati e in parte ingiustamente dimenticati  (G.A.)

da: Lettera aperta di Urupia, Luglio 1997 –  Il lavoro: i settori produttivi

 Come già nella prima metà dell’anno scorso, anche dall’estate scorsa fino ad oggi le nostre maggiori energie si sono concentrate nei vari settori dell’agricoltura.

Un piccolo passo in avanti è stato fatto: l’anno scorso correvamo in continuazione, ma, nonostante ciò, eravamo sempre in ritardo rispetto alle esigenze dei campi. In seguito, continuavamo a correre, ma un po’ meno in ritardo ed in alcuni settori siamo pure riuscite a fare i vari interventi nei tempi giusti, ciò grazie ad una piccola crescita di esperienza e competenza, ad alcuni investimenti in altri macchinari agricoli, all’impianto di irrigazione… e la fatica comincia a dare più frutti.

La cura del nostro vigneto (2 Ha) trascurato ci ha portato, con la vendemmia ’96, una modesta soddisfazione: abbiamo potuto aumentare del 50% la resa, raccogliendo 7000 kg di uva. Paragonando l’attuale livello di resa con quello di altri vigneti, abbiamo ancora un risultato misero ma, viste le difficoltà a combattere in maniera efficace le malattie e considerando che prima del nostro arrivo il 15% delle piante era morto, non abbiamo perso tante lacrime. Tutto sommato la vinificazione è andata bene: abbiamo potuto incrementare la vendita del nostro vino. Concimazioni, potature più attente e d una lotta più efficace alle malattie dovrebbero portare quest’anno ad una resa ancora più alta.

L’anno scorso, il nostro piccolo frutteto ci faceva ancora piangere; potevamo quasi contare la frutta. Potature, concimazione  e la pacciamatura continua hanno favorito un bel risultato: quest’anno quasi tutti gli alberi sono pieni; in tal modo anche il frutteto potrà contribuire sia alla nostra alimentazione che (un po’) alla nostra economia.

Anche l’orto (fino a due anni fa un pascolo) non è più riconoscibile: la sua dimensione si è ancora allargata, per la gioia e anche la disperazione delle ortolane; lo strato di humus è cresciuto man mano ed anche la conoscenza del suolo e la competenza rispetto alle rotazioni, alle consociazioni ed alle malattie. L’aspettativa di contribuire di più all’autosufficienza si è confermata. Complessivamente abbiamo raccolto circa 650 kg di ortaggi; abbiamo così potuto venderne anche una piccola parte nel giro della nostra rete regionale.

Questi buoni risultati si sono resi possibili grazie all’impegno costante delle nostre ortolane, alla volontà di tante/i ospiti, alla più alta partecipazione ai lavori di altre comunarde e (last but not least) all’impianto di irrigazione installato l’anno scorso.

L’oliveto nell’ultimo anno ha cambiato proprio faccia, anche grazie alle particelle non vicine. La vecchia immagine di abbandono causata dal sottobosco e dallo scarico di rifiuti d’ogni genere è superata; dopo un secondo intervento di potatura, adesso tutti gli alberi sono potati. Arature del terreno più regolari (grazie anche all’acquisto di un trattore più grande), concimazione, sovescio e trattamenti – accompagnati da una competenza sempre crescente delle comunarde responsabili – hanno contribuito ad un notevole incremento della resa rispetto alla produzione precedente: quasi dieci volte di più, con la produzione del ’96 di quasi 1.000 litri di olio, in buona parte extra-vergine e vergine. In tal modo abbiamo potuto coprire i nostri bisogni e, grazie al contributo di tanti/e amici/che, distribuire nel giro della nostra rete al nord Italia e in Germania.

Se le condizioni climatiche non provocheranno danni e se potremo contare su una partecipazione più ampia da parte di amiche ed amici, nella raccolta delle olive di Ottobre/Novembre ’97 potremo ancora incrementare sia la resa quantitativa che quella qualitativa.

I Seminativi: (attualmente circa 4 Ha) è il settore della nostra agricoltura che (per vari motivi), sta ancora molto indietro rispetto ad altri comparti: i terreni poveri (rocciosi) e trascurati, la mancanza di macchine agricole adatte i limiti delle nostre competenze e la scarsità di tempo e di energie hanno tenuto molto basso il livello di miglioria dei campi destinati al “seminativo”.

La semina del grano fatta l’anno scorso ci dava, a livello quantitativo, un risultato ridicolo. In seguito, la concentrazione sui lavori negli altri settori ci ha impedito di effettuare la semina invernale. Allora abbiamo deciso di macinare, ne abbiamo ottenuto una farina che si panificava molto bene, regalandoci almeno qualche piccola soddisfazione. Visto che, almeno attualmente, i nostri terreni non sono adatti per la coltivazione del grano, valuteremo la possibilità di prendere in affitto qualche campo idoneo, soprattutto allo scopo di coprire il fabbisogno di farina per il nostro forno.

Anche con la semina delle patate registravamo un fallimento, a causa dei terreni troppo poveri e di un’attenzione alla coltivazione non all’altezza delle necessità.

L’esperimento di piantumazione dei pomodori – sia per la produzione di salsa, che per quella di “corde” di pomodori d’inverno – su un campo più grande (8.000 piantine) ci ha offerto un risultato ambiguo. Nonostante i terreni ancora troppo poveri e le difficoltà di affrontare efficacemente le malattie hanno contribuito ad una resa sufficiente. La trasformazione di una buona parte del prodotto in salsa ci ha dato invece ottimi risultati. Abbiamo prodotto, infatti, più di 800 litri di salsa, garantendoci la totale copertura dei nostri bisogni in cucina e consentendoci anche di distribuirne circa 100 litri ai soci della nostra rete regionale. Meno soddisfacente è stata purtroppo la sorte delle “corde” di pomodori; infatti la mancanza di un locale adatto alle particolari esigenze di conservazione del prodotto ed una scarsa attenzione del “mercato” locale ci hanno fatto piangere sui pomodori marciti. […]

Da: Urupia – Lettera aperta 1999

Antonio:

Ciao a tutti. Scrivere non è il mio forte. O meglio, non è una cosa che faccio volentieri. Tanto più che ciò che dirò mi costa enorme difficoltà. Spiegare i miei sentimenti, il mio stato d’animo, lo trovo molto complesso e pieno di sfaccettature di non facile soluzione. Soprattutto in questo periodo. Tuttavia sento il dovere di fare qualche tentativo per esprimere parte del resoconto dell’esperienza mia, e di Pierpaolo, dei quattro anni ad Urupia.

Dunque… ehm… Un’esperienza di vita in comune è una cosa molto bella ed interessante: allarga gli orizzonti, spazia la mente, aiuta a capire tante cose, ma soprattutto è utile per uscire dal ghetto della vita privata. Questo almeno in teoria, in pratica le cose vanno un po’ diversamente, ma non per tutti e non allo stesso modo.

Allora. Quando nell’ormai lontano millenovecentoequalcosa io, Mariella e Pierpaolo allora piccolissimo decidemmo di unirci a quel gruppo di amici con i quali si elaborò una prima bozza per una vita in comune, ero felicissimo. Non vedevo l’ora di realizzare il meraviglioso sogno della mia vita! Mariella era un po’ cauta, ma anche lei almeno in un primo momento dimostrava grande interesse e curiosità. La morte poi, ha deciso per lei.

Poter stare sempre con gli amici mi sembrava bellissimo. Ricordo quando ero bambino, il dolore che provavo quando, costretto da mia madre, dovevo lasciare i compagni di gioco per tornare a casa. Già allora pensavo a quanto sarebbe bello vivere sempre con gli amici. Questa idea è cresciuta con me ed ha condizionato il mio carattere. Col tempo, poi, altri fattori di natura politica hanno influenzato l’idea della vita in comune. Ma li ritengo di secondaria importanza. La cosa più importante per me era stare con gli amici, il resto è relativo.

Ammetto che così come la espongo, la cosa è alquanto idilliaca, qualcuno penserà che il mio atteggiamento è un po’ ingenuo e infantile. Non so dargli torto!… che fare? … Si vede che non sono cresciuto abbastanza. In fondo, mi sta bene così. È un prezzo che pago continuamente.

Dunque… dicevo… sì, insomma, l’inizio è stato bello, tutta la fase della progettazione: esprimere i desideri, i propri sentimenti, come ci immaginavamo la futura vita in comune, ecc. ecc. questa fase durò un bel po’ di anni, tra ricerche di masserie, riunioni e fiumi di parole.

Il sogno, passo dopo passo, cominciava a prendere corpo, si concretizzava! Così, dopo circa cinque anni di ricerche e riunioni, finalmente riuscimmo a comprare la masseria dove saremmo andati a vivere. Non ci pareva vero! La gioia sprizzava da tutti noi. Io non stavo nella pelle, finalmente potevo tenere Pierpaolo sempre con me (per chi ancora non lo sa, dopo la morte di sua madre, Pierpaolo è vissuto due anni con una zia). Cominciarono subito i primi trasferimenti, ci si accampò alla meglio in attesa di una prima rudimentale ristrutturazione degli spazi disponibili per offrire alla maggior parte dei comunardi condizioni di vita più confortevoli (per altri l’attesa è stata molto più lunga). Un gran da fare: scavi, tubi, impianti di qua, di là, su, giù… un caos indescrivibile, un fermento di attività da non credere! La sera, stanchi ma felici, ci intrattenevamo a cantare, suonare, ballare, scherzare. Insomma a stare insieme in allegria. Tutto questo è durato un bel po’… poi… le energie sono cominciate a calare e con loro un po’ anche gli entusiasmi. Almeno da parte di qualcuno. La stanchezza cominciava a farsi sentire come pure il peso delle responsabilità che, a dire il vero, non erano, e non sono, equamente distribuite. Causa inevitabile dei primi conflitti. Il grosso problema dell’economia incalzava richiedendo maggiore impegno e responsabilità che per vari motivi non tutti riuscivano a sostenere. E giù interminabili riunioni e discussioni a non finire su come affrontare e risolvere tanto il problema economico fondamentale per la nostra sopravvivenza, quanto svariati conflitti che man mano si accumulavano, per mille altri motivi. Il clima della convivenza assumeva a volte sfumature poco rassicuranti! Il rispetto della diversità, la tolleranza – pilastri fondamentali dei nostri principî – scricchiolavano. Qualcuno cominciava a dare segni di cedimento: io ero tra questi.

L’eco delle belle serate si affievoliva, chitarre e tamburelli restavano appesi al chiodo per molto tempo. L’enorme mole di lavoro e tanti altri problemi che sorgevano continuamente non lasciavano molto spazio a momenti ludici collettivi tanto utili a ricreare lo spirito conviviale necessario. Il lavoro innanzitutto! Bisognava lavorare duro e basta! Non restava tempo per niente altro. Obiettivo principale: risolvere il problema economico! Verissimo!! Ma a quale prezzo mi chiedevo?! Non riuscivo più a capire… mi sentivo smarrito, disorientato, lacerato da conflitti e sensi di colpa. Costretto ad emarginarmi da tanti lavori che, a causa degli ormai risaputi problemi fisici, non potevo sostenere. Lavori che, in qualche modo, servivano anche a relazionare con il gruppo. La mia situazione era largamente riconosciuta da tutti e i compagni che mi erano più vicini mi sostenevano e mi incoraggiavano proponendomi soluzioni alternative (laboratorio di ceramica), mirate all’utilità e al mio spirito giocoso e creativo che spesso ero, costretto dalle circostanze, a mortificare.

Io però non riuscivo ad accettare queste proposte. Avrebbero aggravato i miei sensi di colpa, sapendo che in cantiere c’erano tanti lavori più importanti che aspettavano da anni. E poi, ormai, ero entrato in una spirale negativa dalla quale non sarei più uscito! Ero sempre nervoso, insofferente, intollerante come una vecchia zitella, diceva qualcuno. Vedevo problemi dappertutto e non riuscivo a trovare soddisfazione in nessun campo. Anche Pierpaolo notava i miei continui malumori e me ne chiedeva la ragione. In un primo momento cercavo di sorvolare per non mortificarlo, ma poi, pur con qualche difficoltà riuscivo a confidarmi.

Lui, per fortuna, fin dal primo momento, ha trovato ad Urupia un ambiente molto favorevole e stimolante. Sebbene la mancanza di altri bambini a volte costituisse un problema. Per il resto, andava molto bene. Aveva tutto lo spazio che gli serviva, un ambiente ecologicamente sano, circondato da persone con le quali relazionarsi piacevolmente. Considero Pierpaolo un bambino molto fortunato sotto questo aspetto. Per aver avuto l’opportunità di fare un’esperienza tanto singolare e positiva. Per quanto mi riguarda… considero la mia da diversi lati. In parte quello che ho già detto. In parte, diciamo… che tutto sommato è stata un’esperienza interessante sotto molti aspetti. Mi sono arricchito in saggezza, forse. Per il momento ho bisogno di stare lontano, fare qualche passo indietro per rivedere e riflettere su alcuni aspetti da altri punti di vista. Fare altre considerazioni soprattutto alla luce di questa esperienza. Insomma capire cosa vorrò fare della mia vita futura. Se mai ci riuscirò!

Adesso non voglio annoiarvi sul travaglio psicofisico che ho vissuto per tornare in quello che ritengo il ghetto della vita privata del piccolo borghese. Intanto sono qui con le mie incertezze di sempre, con i  miei soliti dubbi, le mie angosce, le mie paure, ecc.

Sono ancora qui dentro le mie mutande – come dice una canzone – a chiedermi: cosa farò da grande?

Un abbraccio a tutti

Antonio

Da: Urupia – Lettera aperta 1999

Ugo:

Ugo è un giovane siciliano che ha vissuto con noi per tre mesi tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. Ugo ha trascorso i precedenti sei anni presso uno dei villaggi del popolo degli Elfi in Toscana.

Mi è stato chiesto di scrivere qualche considerazione personale su Urupia, senza timore di includere qualche eventuale critica.

Vorrei prima scrivere di me.

Il mio desiderio più chiaro è quello di continuare a vivere insieme ad altri in una dimensione in stretto rapporto con la terra, intesa come fonte prima di sostentamento e fonte di “cultura della felicità”. Da diversi anni cerco di vivere questo rapporto, e le cose che comincio a scoprire, cose semplici, di solito considerate banali e ovvie, sono per me importanti. In esse io trovo il significato dell’esistenza. Vorrei essere capace di parlare, ma sento che non è facile…

Che dire infatti, ad esempio, della soddisfazione che c’è dietro alla cura delle piantine di pomodoro, della gratitudine che si prova mangiando le carote, le insalate coltivate con amore.

Come si può spiegare il benessere che viene dal respirare aria pura, la serenità che si può provare vivendo lontano dai rumori della città.

Come potrei descrivere la bellezza e lo stupore che io provo guardando la luna: la vedo crescere ogni sera di più, poi si fa piena, poi ricomincia a calare…

E del sentire le stagioni che si avvicendano, non più solo concettualmente sul calendario, ma “sentendo” questo con tutto il corpo, con la pelle e con gli occhi, col rapporto col fuoco, col rapporto con l’acqua…

E dalla grossa occasione di crescita che ci può essere nel vivere in comune, insieme ad altri, con cui ci si può sempre confrontare, completare, confortare, in un clima di fiducia e di scambio, dove la critica e l’autocritica sono atteggiamenti costanti, accettati e perfino incoraggiati.

Onestamente credo che queste cose semplicissime, in verità, in fondo sono la mia fortuna, la mia ricchezza più grande; una ricchezza che vale la pena di proteggere e di ingrandire sempre di più.

Non mi interessa trovare una realizzazione dentro un sistema in cui lo stipendio vale più dell’ossigeno, e l’egoismo, anzi l’arroganza, torna più conveniente della gentilezza e della disponibilità…

Quando arrivai ad Urupia, tre mesi fa, ho subito trovato un clima di sincera accoglienza, simpatia e amicizia, e la funzionalità e l’organizzazione in generale di questo posto, mi hanno sicuramente dato subito un’ottima impressione. Un’impressione di armonia.

Ma ora, dopo aver trascorso questo frammento di tempo qui, in un modo che potrei definire intenso, ora ho delle impressioni nuove.

A Urupia si lavora troppo. Dico questo consapevole che, oltre alla sua naturale e ovvia necessità, dietro al lavoro ci sono ritorni nobilissimi, quali la soddisfazione, la condivisione, l’altruismo, l’amore per se stessi, la dignità, la verità…

Tutti pezzi importantissimi che compongono il mosaico della nostra felicità.

Quello che non condivido è l’atteggiamento privilegiato, la dedizione zelante e un po’ esclusiva con cui ci si può porre in rapporto con il lavoro.

E nel contempo, direi di conseguenza, la poca considerazione per il gioco, per lo svago, per la contemplazione, per la festa. Anche questi sono pezzi importanti, non meno nobili, non meno utili per completare il mosaico, o meglio, solo per arricchirlo.

Un altro lato che non condivido, che considero “infantile”, nonostante sia generato, io credo, da una ricerca di maturità, da un desiderio di crescita, è la tendenza ad organizzare tutto, fin nei dettagli, fin troppo.

Sono certo ci sia sincera buona fede dietro a questo, responsabilità e dignità, ed io ne ho avuto e ne ho il massimo rispetto, l’adeguamento massimo da parte mia. Mi pare molto giusto adattarsi alla casa in cui si è ospiti.

Ma io credo, mi piace credere, che l’albero è più saggio di noi, più autentico e più vicino a dio perché semplicemente è flessibile al vento, perché non si pone domande, non si cura di quello che sarà domani, non ha bisogno di programmare.

Un’organizzazione, un’efficienza che si fondano sulla pianificazione, io mi permetto di insinuare che non sono veri, che sono fragili e che generano fragilità, dipendenza, che ostacolano la vera crescita.

L’anarchia come a me piace intenderla non è regolata né controllata da qualcuno.

L’anarchia in cu a me piace credere è armonia che nasce da sé in un’aria di libertà, è armonia che deriva dalla coscienza di ognuno, generata dalla disponibilità, dalla partecipazione spontanea di ognuno, quando ognuno fa parte di un tutto.

Non è una via facile, lo so.

I più la ostacolano e la scoraggiano…

Ma soprattutto a volerla percorrere si devono fare i conti con un nemico fortissimo: il nostro ego.

E devo aggiungere necessariamente che tale anarchia io non la conosco affatto ancora del tutto. Non mi sento nemmeno, onestamente, molto degno di poterne parlare.

Dico solo che ci credo, che ci voglio credere, la intravedo soltanto, da molto lontano e vorrei cercarla, scoprirla, viverla, per quello che mi sarà possibile, senza sforzi eccessivi, finché sarà possibile.

Quello che voglio dire infine, a cui tengo molto, sinceramente è quanto segue:

tutte queste parole, queste frasi, queste critiche, sono soltanto considerazioni soggettive mie.

Non mi aspetto che cambino gli altri, che cambino una situazione, non mi aspetto quasi niente da loro.

Se ho voluto esternarle e trasmetterle a tutti, cercando di farlo con la massima chiarezza, rischiando la presunzione, rischiando l’eccesso in talune espressioni, in qualche parola, questo è stato prima di tutto per esprimere un disagio mio.

Non mi aspetto il dibattito, e non mi aspetto nemmeno la comprensione da parte degli altri. Perché voglio credere che ognuno ha quello che si merita, ognuno trova la bellezza in quello che crede, ognuno ha bisogno di cercare a modo proprio, ognuno ha tutto il diritto anche di sbagliare, ognuno è quello che sceglie.

Mi dispiaccio molto se immagino gli occhi di qualcuno mentre leggerà questi fogli, mentre esprimeranno forse dolore o delusione… e questo è molto probabile che sia. Mi prendo questo rischio con responsabilità, ma con la coscienza pura di non cercare il conflitto.

Con ognuno di coloro che stanno qui attualmente ho fin dal principio avuto ottimi sentimenti, autentica disponibilità reciproca e stima.

Mi auguro di tutto cuore che questo continui ad essere. Ma al momento seno che la mia presenza qui è “inopportuna”, sento che il mio cuore è altrove… e quel luogo non è, onestamente, ben definito.

Ma il mio cuore non si è stancato di cercarlo. Quando sarà stanco io smetterò la ricerca, e troverò saggia la decisione di smettere. Al momento il mio cuore è colmo di volontà, desiderio e speranza, e mi ha chiesto di continuare il cammino.

Cordialmente.

Da: C’è bisogno di persone diverse per fare una comune. Cinque anni di Urupia – una comune aperta nel Salento (a cura di Karin Berger & Frank Brexel), Maggio 2000.

– Come ha modificato la comune la percezione di te stessa/o come donna o uomo?

Rolf – Non penso che l’immagine di me stesso sia cambiata. Qui forse anche per necessità oggettive di una comune basata sull’agricoltura, siamo tornati un po’ ai classici ruoli di uomo e donna, più di quanto mi sarei augurato. Ho la sensazione che mi vengano attribuiti ruoli più di quanto vorrei. È la solita storia: eseguire i lavori pesanti e corporali, programmare, pianificare ed organizzare. Trovo poco spazio nella vita in comune per altri bisogni che, per esempio, ho vissuto in relazione a mia figlia e che esprimevano il mio lato premuroso, come anche quello giocoso e creativo. Lo rimpiango molto e spero, in prospettiva, di poter uscire un po’ da questo ruolo che mi viene attribuito.

Elli – Penso spesso che qui dobbiamo ancora lavorare molto per arrivare a un punto a cui ero già arrivata. Ho un’esperienza molto positiva di questo collettivo di donne nella serigrafia Akut, che non era proprio un collettivo di donne, eravamo cinque donne e un uomo ed era incredibilmente semplice lavorare in maniera paritaria mentre qui, fin dall’inizio, non è mai stato così per me. Qui è stato pesante. Per me è stato un passo indietro. All’inizio non c’è stata accettazione delle mie capacità e questo si è modificato nel lavoro con gli altri.

– Quali sono per te i contenuti politici che si sono realizzati nella comune?

Beppe – Tu puoi decidere quanto, come, dove, perché, e questo è l’elemento più grande di liberazione. Per me personalmente c’è un altro aspetto di liberazione che ho trovato qui: io sono poliomielitico ad una gamba e nella società normale ho avuto grosse difficoltà a trovare un lavoro perché c’è la convinzione che un handicappato può fare solo alcune cose. Qui ho trovato la libertà di fare quello che voglio, conosco sempre più i miei limiti, anche fisici, mentre quando ero fuori da Urupia erano gli altri che decidevano i miei limiti. Invece qui li posso decidere io, e questo è un elemento di liberazione, per me personalmente, fondamentale.

– Nella comune, a differenza della società normale, non esiste divisione fra lavoro produttivo e riproduttivo, tempo libero e politica. Quali sono per te i vantaggi e gli svantaggi di questo tipo di organizzazione?

Tonino – Direi che, teoricamente, non esiste questa differenza tra lavoro produttivo e riproduttivo, ma credo che comunque a livello di stati d’animo questa differenza si sente, è inutile negarlo. E non so se questo dipenda da un fatto di maturazione, cioè dal fatto di essere arrivati alla consapevolezza della necessità di questa condivisione o se dipenda dal fatto che questi due tipi di lavoro non sono equamente distribuiti. Sarebbero tutti vantaggi, secondo me, se ogni persona trovasse un proprio equilibrio tra lavori produttivi e lavori riproduttivi. Credo che è questo che manca: un equilibrio in tutte le persone tra queste cose.

Alessandra – L’aspetto più bello della comune era la sperimentazione, la possibilità di cambiare, che è quello che mi piacerebbe tanto fare nella vita e fuori è molto difficile, anche se forse adesso la società si sta trasformando e devi imparare a cambiare lavoro ogni mese per poter lavorare. Però nella comune c’era spazio per la sperimentazione, ed era una sperimentazione in qualche modo protetta, cioè potevi permetterti anche degli errori all’interno di un gruppo che comunque ti aiutava a correggerli, a rimediare.

Karina – Questo è veramente uno dei posti dove, se vuoi, puoi fare. Puoi sempre fare qualcosa di diverso, puoi “learning by doing” non ci sono molti posti dove puoi fare altrettanto. Questo mi sembra il vantaggio maggiore, specifico di Urupia, è pazzesco. Anche il fatto che tu lavori sempre con altre persone, puoi, se hai abbastanza forza ed energia, essere incredibilmente efficiente e completo. È bello, bellissimo. È proprio ciò che mi affascina. Mi sembra che il problema sia il continuo sovraccarico che c’è qui, perché c’è troppo poco spazio per la vita privata, per lo meno per me perché non sono in condizione di crearmi spazi liberi per me stessa, ma le possibilità sono, secondo me, gigantesche.

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