Kurt Vonnegut, Hocus Pocus, 1990.

Kurt Vonnegut, Hocus Pocus, 1990.

“Quest’opera di pura fantasia è dedicata alla memoria di…”

Vonnegut HP 001aVonnegut cominciava questo coso (“romanzo”? mah…) con un’affermazione a dir poco discutibile. Hocus Pocus sarebbe infatti, secondo il suo autore, un’opera di “pura fantasia”. Certo, è un libro che, nel 1990, descrive un futuro che oggi è passato. Nel 2001, anno in cui il protagonista si mette a raccontare la sua vita – oggi lo sappiamo – l’America non è diventata il posto terribile di cui parla Eugene Debs Hartke, i giapponesi non hanno comprato metà degli Usa per poi disfarsene quando hanno capito che era un pacco. Certo, alcune cose anche peggiori di quelle narrate sono accadute, e forse le carceri a stelle e strisce se le prenderanno in gestione i cinesi, ma ci vuole ancora del tempo. Ma per il resto la grandissima parte delle affermazioni e dei racconti di Hartke, cioè di Vonnegut, sono esatte, e quando non sono vere sono verosimili, con l’abilità di farti restare sempre con il dubbio – sta inventando o sta raccontando?

Un paio di cose le ho controllate e non stava inventando, erano vere, ma non desidero rovinare il divertimento a nessuno che si voglia mettere a controllare pagina per pagina – wikipedia alla mano – se il tizio fece davvero quell’assurdità in quell’episodio storico o la tizia sul serio aveva partorito tutti quei figli. Camere a gas e schiavi crocifissi, produzione della plastica e massacri ad opera dei giapponesi, Hiroshima e Vietnam, Vietnam, Vietnam. Quello schifo di guerra decisa dai potenti e fatta dai poveracci, diventati in un lampo spietati assassini. Vonnegut parla sempre di struttura sociale, descrive incessantemente, per l’intero volume, la morfologia della piramide con i proprietari delle piantagioni ancora in cima. Chi nasce in fondo alla piramide – magari con la pelle troppo scura – lì resterà, questa è l’unica logica, l’unica inevitabilità riconosciuta da Vonnegut. Per il resto ci porta in giro per i suoi avvenimenti dove le cose non vanno male perché un personaggio si comporta in maniera poco avveduta, e non vanno bene perché un altro è attivo, saggio e ben disposto; catastrofe e buona sorte sono del tutto casuali, come casuale e privo di senso è il capovolgersi di una situazione favorevole in un disastro, o il contrario. Indulgente verso l’umanità e senza speranza, Vonnegut dà l’impressione di non riuscire mai a rassegnarsi completamente alla stupidità e alla ferocia e sparge sarcasmo acido ovunque, senza riguardo.

L’edizione che ho comprato (per strada, 2 €) è Bompiani, con copertina smorta e triste. Bompiani non vuol dir niente, è da tempo proprietà della Rcs, cioè Fiat, Mediobanca, Pirelli e compagnia bella. Povero Vonnegut. La traduzione (senza guardare l’originale, chissà che sorprese a farlo) mi pare loffia. A pag. 95 potete leggere “essa disse una cosa”, pura cacofonia; a pag. 222 “la famiglia di sua moglie era eminente nella Mafia”, la mortificazione della lingua italiana. D’altronde, se il padrone è la Fiat il risultato sarà da catena di montaggio. In ogni caso resta un gran libro, meno celebrato di Mattatoio n. 5, ma forse ancor più spietato verso il sogno americano. Procuratevelo in qualche modo e leggetelo.

Giuseppe Aiello

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