Urupia: la rappresentazione ingannatrice, ovvero come può un trattore divenire invisibile

Quando, dopo un periodo di discussioni e di confronto sugli obiettivi e sulle difficoltà tecniche, riuscimmo infine a mettere sulla rete filiarmonici (se la memoria non mi inganna era il 2001), già si vedeva chiaramente che nel futuro prossimo, che poi sarebbe oggi, chi avesse voluto rendere visibile le proprie opinioni, progetti o altro, avrebbe fatto bene ad attrezzarsi per utilizzare le possibilità offerte dal “nuovo” medium. Ci fu una delle persone che al tempo giravano intorno al progetto che propose un nuovo sito, dove si parlasse di tutte le realtà comunitarie, autogestite, di sperimentazione della libertà possibile, di cui venissimo a conoscenza, direttamente o indirettamente – non solo in Italia ma ovunque nel mondo. A me (che pensai subito a Urupia, l’unica realtà che conoscevo bene) sembrò un’idea orrenda, un triste catalogo dei difficili tentativi di concretizzazione di sogni altrui, da incastrare in un mezzo gelido e inopportuno. A nessuno piacque la proposta e il sito non si fece, ma era chiaro che la rete non poteva ignorare a lungo le comuni, le quali avrebbero dovuto prima o poi rassegnarsi all’inevitabile: o parlare in prima persona o lasciare che fossero altri, in un modo o nell’altro, a occuparsene.

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“Contro lo sviluppo”: un passo avanti, tre salti indietro.

Stabilito e confermato che nessunissimo partito ha la minima intenzione di inserire nel proprio programma una qualche forma di progetto di interruzione dello sviluppo illimitato, e che neanche organizzazioni e associazioni varie sembrano disposte ad avventurarsi su questo irto ed impopolare sentiero, i critici e gli insofferenti si aggirano in ordine sparso, chi beandosi di un nobile isolamento ed auspicando una catastrofe abbastanza rapida da poter permettere di dire, alfine, “visto, l’avevo detto, io…” – chi invece cercando simpatie e teorizzando movimenti e affinità. Vanno senz’altro inseriti tra questi ultimi gli autori, Marino Badiale e Massimo Bontempelli, di un breve scritto dal titolo invitante: Contro lo sviluppo – Punti critici per una nuova forza politica, che potete trovare qui:

http://www.zmag.org/italy/badiale_bontempelli-controsviluppo.htm

L’articolo, scritto in genere con apprezzabile chiarezza, parte dalla constatazione che le forze politiche di ogni orientamento sostengono attivamente l’idea di crescita economica senza fine e contiene degli esempi stringati ed efficaci che evidenziano come equiparare il prodotto interno lordo di un paese al benessere dei suoi cittadini sia in buona sostanza erroneo, cosa che trovo del tutto condivisibile.
Ho trovato sorprendente che con presupposti di questo tipo gli autori siano giunti a delle conclusioni così moderate, ma pensandoci bene ciò non solo è normale, ma va tenuto presente che una grande eterogeneità di prospettive sarà quello che certamente ci troveremo di fronte se si diffonderà l’avversione allo sviluppo. Vale forse la pena quindi di evidenziare in modo schematico i punti che ho trovato deboli nel documento in questione.

 

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Malatesta e il satiro

Nelle brevi note che seguono ho cercato di evidenziare quelli che ritengo dei punti deboli del pensiero malatestiano in merito al rapporto tra la collettività ed alcuni individui che, a causa del loro agire, mettono in pericolo la pacifica convivenza. In parole povere sto parlando della sorte dei delinquenti recidivi dopo la rivoluzione. Non si tratta di un riesame storico, poiché di storici dei movimenti rivoluzionari e dell'anarchismo ve ne sono in discreto numero e ben più qualificati di me, ma di focalizzare una tematica che spesso si mostra insufficientemente definita in alcuni settori del movimento libertario.
Invito a non interpretare quanto segue in termini etici (buon libertario vs. cattivo autoritario), bensì in una prospettiva realistica: se mi pare sufficientemente documentato che presupposti di tipo A hanno sempre portato a conseguenze di tipo B, ritengo altamente probabile che intenti molto simili porteranno a risultati analoghi. Forse era più semplice dire che la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni…
Se qualcuno ritiene che il pensiero di Malatesta vada seguito alla lettera e che criticarlo sia fuori luogo, dovrebbe riflettere sulla possibilità che il movimento libertario non sia un buon posto ove collocarsi. Di icone e profeti illuminati sono ben fornite molte sette, l'anarchismo può e deve farne a meno.
Con ciò non va dimenticato che erano tempi diversi dai nostri quelli che percorse Malatesta, anni nei quali la rivoluzione, l'insurrezione, non erano spettri lontani, ma avvenimenti che potevano concretizzarsi, e di fatto si concretizzavano, da un momento all'altro.
Solo a distrarsi un attimo ci si poteva trovare spiazzati o impreparati.

Corre in certi ambienti la leggenda ch'io sia stato l'organizzatore della "Settimana Rossa" del 1914. Grande onore per me, ma purtroppo non meritato![…]
In Ancona la mattina le truppe erano restate consegnate e non v'era stato nulla di grave. Nel pomeriggio vi fu un comizio nel locale dei repubblicani a Villa Rossa, e dopo che ebbero parlato oratori dei vari partiti e spiegato le ragioni della manifestazione, la folla incominciò ad uscire. Ma alla porta ci era la polizia che intimava di sciogliersi e di ritirarsi, mentre poi cordoni di carabinieri chiudevano tutte le strade per le quali si poteva andar via ed impedivano il passaggio. Ne nacque un conflitto; i carabinieri fecero fuoco ed ammazzarono tre giovani.
Immediatamente i tram cessarono di circolare, tutti i negozi si chiusero e lo sciopero generale si trovò attuato senza che ci fosse bisogno di deliberarlo e proclamarlo. L'indomani ed i giorni susseguenti Ancona si trovò in istato d'insurrezione potenziale. Dei negozi d'armi furono saccheggiati, delle partite di grano furono requisite, una specie di organizzazione per provvedere ai bisogni alimentari della popolazione si andava abbozzando. La città era piena di truppa, navi da guerra si trovavano nel porto, ma l'autorità pur facendo circolare grosse pattuglie, non osava reprimere, evidentemente perché non si sentiva sicura dell'obbedienza dei soldati e dei marinai. Infatti soldati e marinai fraternizzavano con il popolo; […] qua e là degli ufficiali erano sputacchiati e schiaffeggiati in presenza delle loro truppe e i soldati lasciavano fare e spesso incoraggiavano con cenni e con parole. Lo sciopero prendeva ogni giorno più il carattere di insurrezione, e già dei proclami dicevano chiaramente che non si trattava più di sciopero e che bisognava riorganizzare sopra nuove basi la vita cittadina.
(1)

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Yi Wa O – Andatevene e lasciateci in pace

L'articolo e la traduzione che seguono sono stati scritti e pubblicati nel 2001 su Terra Selvaggia, dunque per "26 giugno" si intende quello del medesimo anno. Devo dire che purtroppo in questi anni niente è cambiato e di informazione su Papua come su tante altre lotte di liberazione è praticamente nulla, gli stati continuano a sterminare i primitivi nel silenzio generale. [G.A., giugno 2007]
 
 
Il 26 giugno a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, in occasione delle manifestazioni contro il Fondo Monetario Internazionale tre persone vengono uccise, e almeno 16 ferite dai proiettili della polizia. Dieci giorni prima la polizia aveva sparato contro i dimostranti a Göteborg che protestavano contro il vertice dell'Unione Europea, ferendo gravemente un ragazzo che per fortuna si è poi salvato e non sembra riporterà conseguenze, e insieme a lui altre due persone, in modo più lieve. Nel secondo caso l'evento ha occupato tutte le prime pagine dei giornali, e se stenterà a permanere nella memoria collettiva sarà solo per il sopravvenuto omicidio di Carlo Giuliani a Genova. Viceversa dei dimostranti ammazzati in Papua N.G. non parla praticamente nessuno. È sempre stato così, alcuni morti pesano come il piombo, altri sono leggeri come il polistirolo, di altri ancora non ce ne si ricorda neanche per un breve momento. In un tempo di polverizzazione dei conflitti non c'è da scandalizzarsi se i mezzi di comunicazione scelgono di interessarsi maggiormente o esclusivamente ai decessi più interessanti o più vendibili al pubblico pagante. C'è pero da chiedersi – sempre – il perché di certe scelte escludenti, il perché ad esempio si parli moltissimo di Palestina, non troppo del Kurdistan e per altre zone e popolazioni in guerra il silenzio sia invece assoluto.
Uno dei casi più significativi è quello della guerra che i nativi di Papua Ovest stanno combattendo contro l'esercito indonesiano, contro la distruzione della foresta e con questa del loro modo di vivere, contro la civiltà e contro lo sviluppo. Già in questo c'è a mio avviso una risposta al perché di tutto il silenzio che circonda quella carneficina. Evitiamo equivoci: tra gli abitanti delle foreste di Papua Ovest pochissimi si definiranno anarchici ed è altamente improbabile che qualcuno di loro abbia letto Bakunin o Malatesta.

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You have won!

Venceremos, venceremos
mil cadenas habrá que romper
venceremos, venceremos
la miseria sabremos vencer!
[1]

Tutta colpa degli anni ’70? Ma sì, furono anni lunghi e larghi, possiamo darla la colpa a loro, nessuno se ne avrà a male. Il desiderio di cambiamento era anche voglia di riscatto da una condizione di miseria – materiale o meno, di una trasformazione globale che facesse scomparire quel mondo affollato di fascisti ridipinti di biancofiore, di lavori indegnamente ripetitivi e salari che imponevano ad ogni finire del mese l’accorto conteggio della lira. Quel mondo insopportabile sarebbe stato sostituito – si auspicava – da panorami ecocompatibili con annessi bambini sorridenti, operai rudi ma soddisfatti, lavoratrici autodeterminate e materne, tutti sereni e intenti all’edificazione del nuovo ordine. A illuminare il tutto il sol dell’avvenire, grazie. La realizzazione di questo grazioso quadretto, retaggio tanto della peste cristiana quanto dei vaneggiamenti dell’immaterialismo storico, richiedeva una dura battaglia – e una vittoria completa. Venceremos, venceremos – cantavano i bravi musicanti cileni scampati per sorte alla mala fine del loro collega Victor Jara, e noi lì, con il pugno alzato, sotto il palco. Vincere non abbiamo vinto, solo che non ho capito bene cosa avremmo perso.

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L’ubiquo Hamkin e i suoi beffardi cromosomi

La mattina del 19 agosto 2002 la signorina A.V. di anni 24 (oppure 22, a seconda dei giornali[1]) se ne stava per fatti suoi nella pineta di Campolecciano (oppure Chioma), ferma in auto con S.P. di anni 39, e mai avrebbe sospettato – e men che meno desiderato – che suo destino sarebbe in breve stato quello di trovarsi al centro di una complicata questione scientifico-poliziesca internazionale. Secondo ciò che riportarono i giornali del racconto dell'unico testimone (S.P.) pare che i fatti siano questi: un giovanotto biondo e aitante si avvicina munito di pistola e,  parlando con difficoltà una lingua incomprensibile (oppure calmo e silenzioso esprimendosi a gesti) richiede dei soldi ai due, ottiene 120 euro e poi spara uccidendo A.V. A questo punto S.P. e il rapinatore ingaggiano una lotta relativamente cruenta durante la quale il rapinatore si prende una pietrata in faccia, perde la pistola che S.P. userà per sparare in aria, perde gli occhiali, perde un ciondolo, capelli, sangue etc. e poi riesce a scappare.

A causa del fotokit e della pistola usata, una Makarov russa, le guardie cominciano a cercare il responsabile tra ragazzi dell'est europa e due mesi dopo arrestano a Capalbio un rumeno (oppure ungherese) clandestino, senza fissa dimora, che va spesso a Livorno e, soprattutto, viene riconosciuto al 90% da S.P. Se lo tengono una settimana. Purtroppo (per le guardie) il suo datore di lavoro gli garantisce un alibi (oppure il suo dna non corrisponde a quello ritrovato, sempre a seconda dei giornali) e quindi lo devono rilasciare (e t'è andata bene, biondo).
Un delitto che rischia di rimanere impunito, ma è a questo punto che entrano in campo, anzi, in laboratorio, le forze dell'ordine in camice bianco, la tecnobiologia al servizio della legge.
 
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la comprensibile esistenza di una musica inaccettabile

Ho scritto questo articolo circa dieci anni fa (per la precisione, alla fine del 1996) per chiarire alcuni luoghi comuni sulla musica napoletana contemporanea e perché tutti quelli che ne parlavano dimostravano di non conoscerla, di non averla mai ascoltata con attenzione e di conseguanza dicevano un sacco di sciocchezze. Anche se un po' datato – in dieci anni cambiano tante cose (Mario Merola era vivo, Gigi D'Alessio era totalmente ignoto al di fuori del suo contesto e così via) – e con qualche piccolo errore, l'articolo resta secondo me ancora valido nell'affrontare da un punto di vista materiale e funzionale un'espressione culturale di massa. Divenne il capitolo di un libro che ebbe vendite scarse, però fu letto da un giornalista de "Il Mattino", Federico Vacalebre, che riprese il termine che avevo coniato, cioè "neomelodica", nei suoi articoli e anche in un libro (citandolo correttamente). Con mia grandissima sorpresa una parola messa lì per colmare un vuoto terminologico, ma senza grandi pretese, divenne in pochissimo tempo un termine diffusissimo e radicato nel linguaggio. Ancora oggi quando mi capita di raccontare a qualcuno che sono io il "colpevole" dell'esistenza del vocabolo ho l'impressione di non essere creduto. Dimenticavo, mi avevano detto che mi pagavano (500mila lire), e non l'hanno mai fatto, e ciò fu forse un bene: ho capito che andare a questuare per farmi dare i soldi che mi spettano per un lavoro non è arte mia. Così si estinse ogni pur vaga ambizione di fare il giornalista. (G.A., giugno 2007)

  

LA COMPRENSIBILE ESISTENZA DI UNA MUSICA INACCETTABILE

 
Invito ad un piccolo esperimento domestico

La modesta dimostrazione che viene qui di seguito illustrata richiede pochi elementi: un qualsiasi apparecchio radiofonico in grado di captare le stazioni che trasmettono in modulazione di frequenza, un posto ove l'ascolto di tale apparecchio sia ordinario – casa, luogo di lavoro, se compatibile con la diffusione di musica, sedi di associazioni a carattere culturale, ricreativo o politico, e così via – e, infine, una o più cavie umane. Le cavie ideali dovrebbero appartenere a quella consistente fetta di popolazione che ha compiuto studi medio-superiori o universitari, democratica e/o progressista, di certo antirazzista. Vanno bene anche i rivoluzionari, se vi riesce di trovarne. L'importante è che le cavie dedichino una certa attenzione e una parte del loro tempo al consumo culturale, che siano gente che legge, vede, ascolta: sono presumibilmente le persone che ti circondano quotidianamente, o lettore. Dimenticavo, è necessario che ci si trovi a Napoli, o nei suoi dintorni.
Poni il sintonizzatore in corrispondenza delle emittenti che mettono in onda la musica più banale, più commerciale, più scontata che riesci a trovare (non essere sleale, Radio Maria non vale). Fai sì che vengano ascoltati Ramazzotti, Baglioni, Masini o quell'infinità di musiche dance e di gruppetti similpop e falsorock di lingua inglese, tutti uguali e tutti identicamente noiosi. Le tue cavie non avranno, generalmente, alcuna reazione, oppure chiederanno più o meno cortesemente di cambiare stazione, magari lamentandosi che la radio non manda mai niente di buono e ho capito domani porto io delle cassette. Si fermeranno su un De Gregori e dopo De Gregori pubblicità e poi ecco Concato e pace.
Prova invece, in un giorno successivo, a fermarti su una a caso di quelle decine e decine di microradio che mandano Ida Rendano, Ciro Ricci, Nino D'Angelo, Franco Ricciardi, Carmelo Zappulla: all'impatto la cavia reagirà con raccapriccio maldissimulato o con manifesto disgusto, l'espressione più moderata sarà "ma che cazzo ti senti?!", l'eventuale silenzio sarà imbarazzato o esterrefatto.
Cosa è mai successo? È successo che la tua cavia ha incontrato ciò che sente diverso da lei ma ne lambisce e a tratti ne condivide il territorio di appartenenza, ha toccato con le orecchie una musica brutta, sporca e cattiva, una musica inaccettabile, la musica dei tamarri. La tua cavia non lo sà, ma è impregnata fino al midollo di un invincibile razzismo culturale.

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Lo strano caso del signor Crawford

Lo
strano caso del signor Crawford

 

Deve essere per forza capitato anche a voi, per lo meno a
molti di voi. Una discussione con una persona conosciuta da poco, o anche un
amico al quale non avete mai reso chiara la vostra insofferenza verso il
controllo sociale, l'industrializzazione, il consumo coatto.

A un certo punto vi sarà giunta alle orecchie
l'osservazione cruciale: "ma per essere veramente coerente con quello che
dici dovresti andartene su una montagna a fare l'eremita!" – che in
effetti potrebbe sembrare una soluzione. Andarsene in una landa negletta,
trovarsi una caverna disabitata da qualche decina di migliaia di anni e darci
un taglio con le bollette, la dichiarazione dei redditi, il capoufficio, il
caporeparto, l'ici, l'iva, l'irpef, le micropolveri nell'aria e nei polmoni,
gli ogm, il telefonino, le schede elettorali, i politici, le guardie…
impegnativa, è vero, ma mica male come idea.

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Con passo allegro e risoluto, verso l’abisso

Per anni è stata ripetuta un’immagine, una domanda retorica che descriveva una possibilità che appariva catastrofica ma lontana, e in fondo in fondo irrealizzabile. Chiara, chiarissima e poco credibile: “Cosa succederà quando un miliardo di cinesi vorranno avere gli stessi consumi delle nazioni industrializzate?”.

La risposta stava in un sospiro, sopracciglio sollevato e una finta aria preoccupata. I documentari sulla produzione in Cina che passavano in televisione a tarda sera mostravano che il problema principale dell’apparato politico, e dunque di quello produttivo, era di trovare una collocazione alla manodopera in eccedenza. Erano delle figure bizzarre, esotiche ed obsolete, quelle degli operai e operaie dagli occhi sottili che compivano gesti, come confezionare cibi manualmente, che già da anni nelle fabbriche occidentali erano completamente scomparsi, sostituiti dalla meccanizzazione. Usciti dalla fabbrica i lavoratori cinesi non salivano in automobile ma inforcavano la bicicletta, lasciandoci tranquilli riguardo le loro emissioni nell’atmosfera – insomma, gente arretrata, che inquinava poco. Erano tanti, è vero, ma si sapeva che i cinesi si spostavano con discrezione, dopo i minacciosi flussi migratorî dell’ottocento (a un certo punto, con il Chinese Exclusion Act del 1882, i governanti statunitensi avevano addirittura bloccato l’immigrazione cinese) – e il grande timoniere preferiva tenerseli tutti in casa.

Ordunque, come dovrebbe essere ben noto, ci sono alcune novità.

Per prima cosa i consumi delle nazioni industrializzate e postindustriali, che già parevano sproporzionati e insostenibili 20 anni fa non si sono affatto stabilizzati, ma continuano a crescere. Benché la politica progressista e l’ecologismo moderato abbiano sottolineato con petulanza il bisogno di una diversa qualità della produzione non c’è alcuna evidenza di un percorso in tal senso. Per ogni materiale nocivo che viene proibito (come l’amianto) altri cento prodotti (ogm, antidepressivi, conservanti, vaccini, dolcificanti, solventi, campetti di calcio…) vengono sperimentati su popolazioni impossibilitate ad orientarsi a causa dalla sovrabbondanza di informazioni, quasi tutte errate o fuorvianti, e dunque incapaci di difendersi. Inoltre, pare che l’oriente abbia deciso di essere vivamente interessato ad uno stile di consumo occidentale. Ma siccome la concorrenza è impietosa e la crescita impetuosa, gli orientali hanno inevitabilmente peggiorato, da un punto di vista ambientale, le caratteristiche della produzione. E poi i cinesi non sono più un miliardo, ma un miliardo e duecento milioni, ai quali vanno sommati gli indiani, che sono un altro miliardo, per tacere di indonesiani, coreani e altre centinaia di milioni di persone che ambirebbero a cambiare automobili e vestiti e telefoni e televisori con la nostra stessa frequenza – gente affamata di merci deperibili, assetata di bevande gassate rinchiuse in bottiglie di polietilentereftalato.

Come devastatori noi visipallidi siamo ancora primi in classifica, ma non è detto che ci rimarremo per molto.

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Diario di viaggio n. 2

Diario di Viaggio

di un cavernicolo vinilitico casualmente in transito nel millennio sbagliato

giugno 2006, n. 2

Cercatelo, registratelo o scaricatelo e poi venitemi a raccontare che effetto vi fa. L’inizio ricorda vagamente Imagine di John Lennon, con un piano elettrico e una chitarrina parimenti anemici che mettono in croce quattro accordi da falò dei boyscout. Subito dopo parte una voce che rimanda metà a Gianni Bella e metà a Dario Baldambembo e metà a Marco Ferradini e metà a Drupi. La musica sembra composta da Riccardo Cocciante in combutta con Antonello Venditti su commissione della casa discografica per farla cantare ai Dik Dik a San Remo ’72.

Il testo cominciava così: Sta nel fondo dei tuoi occhi / sulla punta delle labbra / sta nel corpo risvegliato / nella fine del peccato / nella curva dei tuoi fianchi/ nel calore del tuo seno / nel profondo del tuo ventre / nell’attendere il mattino…

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